di Armando Manocchia – Altra domanda che ci dobbiamo fare ora non è soltanto se questa mattanza è davvero finita e tanto meno se avrà prodotto, come sono convinto, ulteriore antisemitismo, che può ferire si, ma non uccide, bensì: le vittime, i feriti, gli sfollati, la fame, la distruzione di Gaza porteranno radicalizzazione e jihadismo e quindi un terrorismo islamista di nuova generazione?
Con la risoluzione del Parlamento europeo 2015/2063 si precisa che la radicalizzazione può essere fonte di condotte delittuose senza far riferimento, in particolare, a condotte terroristiche o al terrorismo d’ispirazione religiosa.
Parallelamente, il Codice penale definisce all’articolo 270 sexies le condotte aventi finalità di terrorismo attraverso una norma aperta a contenere qualsiasi definizione ulteriore derivante da Convenzioni internazionali o da norme di diritto internazionale vincolanti per l’Italia.
Questo estremismo si concreta, talvolta, nel jihadismo: radicalizzazione dell’opzione religiosa tale per cui il soggetto sceglie di partecipare attivamente alla lotta armata o a reti internazionali di terrorismo.
Fermo restando tutto questo, il pericolo che si aggiunge in seguito alla mattanza durata due anni potrebbero affacciarsi in Occidente e quindi anche sulla scena italiana con i ‘lone actor’, – e non per forza di cose, gruppi, clan, cosche a cui siamo avvezzi – e cioè questi soggetti singoli radicalizzati che, aderendo al richiamo del “jihad globale”, preparano e commettono atti di terrorismo al di fuori di qualsiasi struttura di comando.
L’Italia, rispetto ad altri Paesi europei, ha da sempre conosciuto e sperimentato in misura molto minore il terrorismo, anche grazie all’abilità delle autorità italiane nello smantellare cellule terroristich, e anche, dalla capacità organizzativa e di pianificazione di attivare misure di prevenzione ed espulsione, ricorso che l’Italia – contrariamente ad altri Paesi europei – può attuare proprio perché il fenomeno di migrazione è qui più recente e non si è ancora evidenziata abbastanza la presenza di seconde e terze generazioni come negli altri Paesi.
Infatti, circa il 66% dei foreign fighters legati all’Italia sono immigrati di prima generazione. Buona parte di loro ha la residenza al Nord o al Centro Italia; la zona prediletta è la Lombardia e la provincia di Milano che annovera un maggior numero di jihadisti.
Gli studiosi del fenomeno tendono a escludere che esista un nesso significativo tra le condizioni economiche e i processi di radicalizzazione.
In realtà, i dati rivelano che diversi jihadisti europei si trovavano in situazioni di privazione economica e risultavano disoccupati al momento della partenza per l’area di conflitto. Questo fa propendere il pensiero alla domanda fatidica, e cioè se avremo d’ora in poi atti di terrorismo islamista in Italia, anche alla luce del rapporto strategico con Israele.
Ma il problema che il nostro ordinamento si trova a dover affrontare non riguarda tanto l’individuazione dei radicalizzati, (basta la Polizia Postale a monitorare sui social questi gruppi o singoli fondamentalisti) quanto piuttosto il capire quando esista davvero l’effettiva possibilità di un passaggio di questi soggetti in cerca di opportunità di rivalsa all’azione terrorista.
Lo Stato Islamico ad esempio – come altri gruppi estremisti del passato – puntava sul reclutamento di persone con precedenti e in cerca di opportunità di rivalsa. E purtroppo, questi Palestinesi di opportunità di rivalsa gliene è stata data da vendere.
Armando Manocchia