In comunità con i baby camorristi: non sanno leggere l’ora, ma sparano

Dentro il centro all’estrema periferia di Napoli, Scisciano, che accoglie i minori con reati anche molto gravi: dall’associazione mafiosa al traffico di stupefacenti – di Antonio Crispino /Corriere TV

Sono i figli della camorra, generati dal «Sistema». Cioè con i genitori in carcere, ai domiciliari o morti ammazzati. Li cresce ignoranti, senza essere mai andati a scuola, alcuni nemmeno all’asilo nido. In molti non sanno leggere e scrivere. Non sanno parlare in italiano. E anche il loro dialetto è ridotto a espressioni poco più che onomatopeiche. Spacciano, rapinano, sparano, non per esigenze economiche. Non rientrano nell’oleografia del criminale di necessità. Con quei soldi comprano il lusso che altrimenti non potrebbero mai permettersi. Sono i #kidsrichofcamorra.

Le T-shirt da 300 euro
Marcelo Burlon è il loro stilista di riferimento. Li vedi tutti vestiti uguali. T-shirt da 300 euro, scarpe da 500. Non solo un vezzo ma una divisa. Si incontrano, si guardano, si riconoscono nel marchio: una croce stilizzata. Che vuol dire potere. Perché se a quindici anni sei riuscito a comprarla allora ce l’hai fatta, sei un pezzo affidabile del «Sistema». Il sabato a ballare al Golden Gate, rigorosamente con il tavolo vip… «come Fabrizio Corona, come i calciatori, come quelli che hanno i soldi», dicono. Buttano via 2-300 euro a sera. Sanno tutto di spaccio, di armi, di rapine, di gerarchie mafiose. Ma non sanno obliterare un biglietto della metro.

In comunità
«Quando sono in uscita per seguire qualche corso li dobbiamo accompagnare noi perché c’è il rischio che si perdano. Fuori dal rione non sanno orientarsi. A un ragazzo stiamo insegnando a leggere le lancette dell’orologio. Ad altri, se chiedi quali sono i mesi dell’anno non te li sanno dire» racconta Silvia Ricciardi della comunità per minori Jonathan, che ha mutuato il nome dal gabbiano simbolo dell’abnegazione descritto nel libro di Richard Bach. Silvia è la responsabile di questo centro all’estrema periferia di Napoli, Scisciano, che accoglie i minori con reati anche molto gravi: dall’associazione mafiosa al traffico di stupefacenti. Ha la scorza dura di una che ne ha visti tanti di ragazzi così. Non li giudica e non li fa giudicare. Non è un sergente di ferro, non servirebbe. «Se fanno i reati che fanno di certo non hanno paura di me che sono una donna. Tra l’altro la loro concezione della donna è arcaica e non prevede ruoli di comando» dice con realismo. Iniziano da cose semplici. Come apparecchiare la tavola, chiedere “per piacere”, impugnare una forchetta, spostare una sedia. Sono maldestri, sembrano vacche nella cristalliera. Non conoscono il valore delle cose, rompono oggetti di continuo. Se si tratta di scarpe, però, sono attentissimi, stanno sempre lì a pulirle, le vogliono bianche immacolate».

Principi vaghi
Entrano in comunità che hanno quattordici o quindici anni. E la comunità prima ancora di insegnargli a leggere o scrivere deve fargli da madre e padre. Non possono tenere né soldi né cellulari, se non in orari prestabiliti per chiamare casa. Appena possono riaccenderli è un fiume di notifiche su Facebook, in gran parte di amici del rione. Tutte frasi iperboliche quanto vuote: «Sì’ ‘o sang mio», «Fratello mio, senza te siamo tutti senza libertà». E poi enunciazioni di principi vaghi o frasi del film Blow in cui Johnny Depp interpreta un narcotrafficante, il loro preferito assieme al sempreverde Scarface.«Entrai con una laurea in Mariujiana e ne uscii con un dottorato in Cocaina»; «…non penso di aver commesso un crimine, anzi… Ho varcato una linea immaginaria con un pacco di piante». È il copia e incolla che si trova sulle bacheche virtuali, tra una foto con le pistole e un’altra con lo spinello in mano. Usano parole per apparire più cattivi, più forti, più duri, più impermeabili ai sentimenti. Ma la notte, in preda agli incubi, svelano la vera natura adolescenziale. Con loro dorme sempre un operatore, Luigi Linguetta. E le sue notti sono sempre più uguali: «Capita spessissimo che li senta gridare nel sonno, come se fossero inseguiti da qualcuno. Gridano ’Piglia ‘a pistola, piglia ‘a pistola’, rivivono nel subconscio le paure della strada. Ma anche quando parlano normalmente tra loro l’argomento preferito è le armi».

Morti ammazzati
Attualmente ci sono quattro ragazzi, il massimo consentito è otto. Da qui è passata tutta la «paranza dei bambini». In primis Emanuele Sibillo, il capo riconosciuto e ammirato. Morto ammazzato a 19 anni sotto una pioggia di tredici proiettili. Ma anche Genny Cesarano, il diciassettenne ucciso alla Sanità in seguito a una «stesa», l’usanza di sparare in aria per marcare il territorio. Poco tempo prima era da Jonathan, in messa alla prova per piccoli reati. La lunghezza della fedina penale la usano come vanto, una patente per pretendere rispetto dagli altri. «Siamo dovuti intervenire quando un ragazzo pretendeva di farsi fare il letto da un suo compagno, alcuni cercano di imporre le regole del clan ma qui non è possibile» spiega Giovanni Salomone, che con Rosalia Esposito completa il team degli operatori sociali. Se il ragazzo non si adegua parte la richiesta al Tribunale di cambiare la messa alla prova in carcere. Non si fanno eccezioni, non si guarda in faccia a nessuno. E quando hanno dovuto fare la stessa cosa con il figlio di un casalese, nel senso di clan dei casalesi, le cose hanno preso subito una brutta piega.

«Il casalese»
«Arrivò questo ragazzino accompagnato da un operatore che gli teneva i bagagli. Non si faceva chiamare per nome ma pretendeva che lo si chiamasse “il casalese” – ricostruisce Enzo Morgera, l’altro responsabile di Jonathan -. Gli chiedemmo di togliersi il berretto quando entrava da noi e la risposta fu: “chiariamo una cosa, io non ho paura di nessuno, né della legge, né di voi e né del Padreterno». Il giorno dopo i carabinieri lo vennero a prendere e lo portarono in carcere ma nella stessa settimana l’auto della Comunità venne incendiata. Alle domande si sforzano di non apparire imbarazzati, si muovono in continuazione. La paura più grande è quella di sembrare deboli. Comprensibile, per chi, come Antonio, 17 anni, quinta elementare, era lo spacciatore del clan D’Amico, gruppo egemone nel rione Conocal di Ponticelli, ora scomparso. O per Marco, cresciuto con l’esempio dell’amico capopiazza sotto casa che un poco alla volta l’ha introdotto nel giro. Proprio lui ha una smorfia di vergogna quando deve spiegare cosa faceva con tutti i soldi che guadagnava. «Erano tanti, ma io in tasca non avevo mai un euro. Li spendevo tutti nelle slot machine. Volevo conservarli ma non ci riuscivo, era più forte di me». Da Jonathan non arrivano solo minorenni campani ma anche da altre regioni. «La differenza è abissale con i calabresi» dice Morgera. Le immagini che ha in mente sono quelle di Tiziano, nome di fantasia, rampollo di una delle più potenti famiglie ‘ndraghetiste di Reggio Calabria, un caso di scuola. Per la prima volta un Tribunale decideva di allontanare un minore dalla propria famiglia perché mafiosa. Ma Tiziano, seppure appena quindicenne, aveva ricevuto già il battesimo criminale, le stigmate del capo. Enzo Morgera ce lo mostra in foto sul cellulare. È un ragazzino magrolino, curato, sobrio, il volto glabro, zero tatuaggi. «Parlava in italiano correttamente ed era rispettoso dei ruoli. Mai avremmo immaginato la sua storia», ricorda il responsabile della Comunità. La storia si scoprì quando arrivati a Reggio Calabria trovarono una folla adorante in attesa del rampollo. E lui la spiegò così: «Mi vogliono tutti bene perché mi metto a disposizione». Tra la folla c’era un ragazzo a cui aveva reso giustizia dopo che era stato bersagliato e insultato. Tiziano fece in modo che chi l’aveva offeso non potesse più avere figli.

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