«Conviviamo? No, grazie»: il grido viscerale di un Occidente che non vuole morire

Difendere la propria identità non è fanatismo, è istinto di sopravvivenza. È igiene della civiltà. Le culture non sono intercambiabili

di Carmen Tortora – Lo ricordate quel periodo? L’odore del fumo di New York ancora nell’aria, i televisori accesi a ogni ora, e all’improvviso – come una risposta prefabbricata al dolore – comparvero adesivi, spille, magliette: «Conviviamo». Parola dolce, apparentemente innocente. Ma a chi ha ancora sangue nelle vene suonava falsa. Perché dietro la patina colorata della tolleranza c’era già il seme della resa. Nessuna civiltà sopravvive se disarma il proprio istinto di difesa.

La cultura non è un giocattolo, è un muro costruito con secoli di sacrifici. È ciò che ci distingue dal branco, ciò che ci ha permesso di resistere al caos, alle invasioni, ai tentativi di cancellarci. Quando smetti di proteggerla, smetti di esistere. Chi ti parla di “convivenza universale†ti sta invitando al suicidio con parole gentili. Perché la coesistenza forzata non genera armonia: genera apatia, debolezza, perdita di senso. Ti toglie la spina dorsale e ti lascia un sorriso stampato in faccia mentre ti dissolvi.

Il mito del melting pot è stato il più grande inganno moderno: raccontato dai potenti per comprare obbedienza a basso costo. Industriali e ideologi, due facce della stessa medaglia. I primi volevano forza lavoro da spremere, i secondi volevano masse senza radici, facili da manovrare. E oggi la truffa continua, ribattezzata “globalismoâ€: l’amore per il mondo che comincia col disprezzo per sé stessi. È un affare miliardario travestito da missione umanitaria. E intanto i popoli si spengono, trasformati in comparse di un folklore addomesticato.

L’Occidente non muore per le bombe: muore di colpa. Gli hanno insegnato che difendersi è peccato, che avere limiti è vergogna, che dire «noi» è pericoloso. Così, chi difende la propria casa diventa “intolleranteâ€, chi chiede ordine è un “estremistaâ€. Ma la verità è che le nostre città si stanno sbriciolando. Quartieri interi dove la lingua madre è diventata minoranza, dove il rispetto non è reciproco, dove la paura cammina a testa bassa tra le vetrine rotte. E le élite osservano tutto compiaciute, da dietro i loro schermi, parlando di inclusione mentre accumulano profitti.

Non serve odio, serve coraggio. Dire no quando tutti dicono sì. Ricordare che la tolleranza senza confini è un veleno lento. Ti entra nel sangue, ti fa credere che essere buono significhi farti calpestare. Difendere la propria identità non è fanatismo, è istinto di sopravvivenza. È igiene della civiltà. Le culture non sono intercambiabili, e chi lo sostiene mente: non per ignoranza, ma per interesse.

Le nuove caste globali conoscono bene la nostra debolezza: la vergogna d’essere ciò che siamo. Vogliono un’Europa senza memoria, senza radici, senza fede. Vogliono un Occidente che chieda scusa persino per esistere. Hanno trovato la formula perfetta: farci suicidare in nome della bontà. Così “convivere†diventa obbedire, e “accogliere†significa scomparire.

Non è un manifesto d’odio. È una scossa al cuore. Un invito a riscoprire la fierezza tribale, il diritto di dire: questa è casa mia. È il momento di guardare il nemico negli occhi, di smettere di inginocchiarsi davanti al ricatto morale. Se la compassione diventa un’arma, la risposta dev’essere la lucidità. Se la tolleranza diventa trappola, la risposta è la dignità.

Ritrovare il tribale non significa regredire, ma rinascere. Significa scegliere la vita, la propria, prima che qualcuno decida di spegnerla in nome dell’uniformità globale. Perché non c’è convivenza possibile tra chi vuole vivere e chi vuole cancellarti.

 Carmen Tortora – Per aggiornamenti e approfondimenti: t.me/carmen_tortora1

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *