Ogni tanto, anche in questa fiera del delirio digitale, arriva una notizia che fa tirare un sospiro di sollievo
di Carmen Tortora – Solo 9 milioni di italiani hanno attivato le credenziali digitali della Carta d’Identità Elettronica. Il resto – cioè l’84% – ha avuto il buon senso di ignorare il richiamo del chip, preferendo tenere la tessera nel portafoglio, come un qualsiasi documento, e non come chiave d’accesso al panopticon digitale europeo. Insomma, 46 milioni di persone hanno deciso, magari senza nemmeno saperlo, di non farsi inghiottire del tutto dalla macchina. È una forma di resistenza civile inconsapevole, ma pur sempre resistenza.
La CIE, spacciata per il gioiello della modernizzazione italiana, si è rivelata per ciò che è: una costosissima trappola burocratica. Serve a poco, funziona male, e quando funziona è un incubo di codici, PIN, PUK e lettori NFC. Per attivarla serve una laurea in informatica, per usarla serve la pazienza di un santo. Risultato: 9 milioni di coraggiosi attivisti digitali hanno completato la trafila, mentre gli altri 46 milioni hanno fatto l’unica scelta intelligente – lasciarla spenta.
Eppure non c’è troppo da festeggiare. Perché nel frattempo abbiamo ancora lo SPID, quella creatura ibrida che si finge “pubblica” ma vive grazie a privati accreditati, controllata dallo Stato e sincronizzata con Bruxelles. Il Sistema Pubblico di Identità Digitale – nome altisonante, realtà ben più prosaica – è la vera infrastruttura centralizzata di sorveglianza digitale in Italia, la porta d’ingresso obbligatoria per tutto: sanità, scuola, tasse, bonus, università, banca, utenze. In pratica, se vuoi sopravvivere nel sistema, devi usarlo.
Lo SPID non è un servizio decentralizzato, come si cerca di far credere: è un sistema federato solo sulla carta. Dietro il linguaggio tecnico da manuale UE (“provider”, “livelli di sicurezza”, “interoperabilità”) c’è una verità semplice: tutti passano per lo stesso imbuto. Che tu scelga PosteID, Aruba o InfoCert, il login porta sempre alla stessa porta digitale, controllata dal Dipartimento per la Trasformazione Digitale e dall’AgID. È un modello di centralizzazione elegante, cioè un accentramento travestito da pluralità.
I dati personali non vengono “gestiti” direttamente dallo Stato, ma certificati da aziende private che svolgono il ruolo di intermediari. In altre parole: la tua identità digitale non è tua, ma “autorizzata” da soggetti terzi, che a loro volta rispondono a regole europee. Il cittadino, ridotto a username e codice OTP, deve fidarsi che tutto sia “sicuro”. E quando l’UE parla di “interoperabilità”, significa semplicemente che presto tutti questi sistemi nazionali dovranno comunicare perfettamente tra loro: un’unica rete, un’unica logica, un’unica chiave d’accesso per l’intero continente.
Lo SPID, insomma, è il cavallo di Troia perfetto per l’identità digitale europea. Non a caso è stato costruito seguendo gli standard eIDAS, la normativa dell’Unione che prepara il terreno per il grande passo: l’EUDI Wallet, cioè il portafoglio digitale unico dell’UE. Il meccanismo è semplice: l’identità italiana (SPID), quella tedesca, quella francese – tutte integrate in un’unica infrastruttura continentale, dove ogni cittadino europeo avrà un profilo digitale verificato, interoperabile e accessibile da istituzioni pubbliche e “partner certificati”.
Il nuovo IT Wallet, già sperimentato nell’app IO, è solo la fase due della stessa operazione. Si presenta come un portadocumenti digitale “comodo e sicuro”, ma nella sostanza è un archivio centralizzato di dati biometrici e amministrativi che si appoggia proprio a SPID o CIE per funzionare. Non autentica nulla da solo, ma prepara il terreno per quando il sistema europeo sarà pienamente operativo. È la classica mossa “alla UE”: un passaggio tecnico travestito da innovazione civica.
E così, mentre i comunicati ministeriali parlano di “semplificazione” e “inclusione digitale”, il quadro reale è un altro: SPID è già la spina dorsale della futura identità digitale europea, e la CIE – nonostante la sua apparente irrilevanza – serve solo a dare una patina di “sovranità nazionale” a un progetto che di nazionale non ha più nulla. Tutto converge verso Bruxelles, dove il wallet europeo sarà la chiave universale per muoversi nel “mercato unico digitale”.
Il bello (o il tragico) è che lo SPID non è neppure sostenibile economicamente. I gestori privati lamentano da anni costi elevati e ritorni inesistenti, tanto che il governo ha dovuto garantire un’elemosina di 40 milioni di euro in tranche bimestrali. Ma nonostante la retorica sul “mercato concorrenziale”, la realtà è che SPID sopravvive solo perché serve all’Europa. È il suo banco di prova: un laboratorio perfettamente funzionante, con 41 milioni di utenti docili e un’infrastruttura già integrata con i protocolli UE.
Ecco quindi il paradosso: la buona notizia è che la CIE è un flop, la cattiva è che SPID no. Gli italiani hanno (forse) evitato di attivare la loro carta elettronica, ma intanto usano ogni giorno il sistema che li collega direttamente alla rete europea di autenticazione. Quando l’EUDI Wallet sarà operativo, il passaggio sarà automatico: SPID e CIE confluiranno in un’unica identità digitale continentale, valida ovunque, utile a tutto, controllabile da chiunque.
In fondo, l’84% di italiani che ancora non ha digitato il PIN della propria CIE rappresenta l’ultima trincea dell’anonimato. Ma la trincea si restringe: ogni bonus, ogni servizio, ogni “semplificazione” spinge verso l’obbligo di autenticarsi digitalmente. È così che la libertà si trasforma in comodità, e la comodità in dipendenza.
Per ora, ci resta solo da sorridere del paradosso: il sistema che funziona è quello che ci lega all’Europa dei dati, quello che fallisce ci salva dalla schedatura totale. E forse, in questa follia burocratica, gli italiani – inconsapevoli, restii, sospettosi – sono ancora una volta più saggi di chi li governa.
Fonte dei dati: www.agendadigitale.eu
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