Dopo la corona, le piazze: l’eco che nessuno vuole sentire

Buckingham Palace, Carlo III e l’emiro del Qatar REUTERS
foto Reuters

di Carmen Tortora – C’è un filo sottile, quasi impercettibile, che attraversa un secolo di storia britannica e riemerge oggi, sotto la patina liscia delle visite di Stato e dei sorrisi regali: un filo che lega la corona inglese, i Fratelli Musulmani e le monarchie del Golfo educate nei collegi di Sua Maestà.

È lo stesso filo che comincia nei corridoi del Cairo coloniale e finisce nelle sale ovattate di Buckingham Palace, dove nel dicembre 2024 l’emiro del Qatar – ex allievo di Harrow e di Sandhurst – veniva accolto da Carlo III con tutti gli onori. Poi, quattro mesi dopo, lo stesso Carlo si presentava in Italia per la sua prima visita di Stato dopo la malattia: discorso solenne, abbraccio all’Europa, omaggio alla memoria. Tutto perfettamente regale, perfettamente “innocente”. Eppure, dietro la coreografia, riecheggia un manuale d’istruzioni che l’Impero britannico conosce a memoria: usare la religione come leva, maneggiare l’islamismo come strumento di potere, e rivestire tutto con il linguaggio forbito della diplomazia e della filantropia.

La storia, se la si legge nei documenti e non nei comunicati stampa, non mente. Negli anni ’40, quando l’Egitto era ancora formalmente sovrano ma sostanzialmente sotto tutela, gli ufficiali britannici tenevano d’occhio quel movimento cresciuto come erbaccia tra le crepe del colonialismo: i Fratelli Musulmani di Hassan al-Banna. L’MI6 lo osservava, e – come rivela Mark Curtis nel suo Secret Affairs (2010) – lo frequentava con l’interesse di chi riconosce in un fanatismo utile un potenziale alleato temporaneo.

L’ambasciata britannica al Cairo, nel 1949, registrava che il re Farouk stava “andando fino in fondo per schiacciare la Fratellanza”, ma gli agenti di Sua Maestà invitavano alla cautela: distruggere quei gruppi, dicevano, poteva privare Londra di una preziosa “capacità di influenza” nel mondo musulmano. È lo stesso metodo che l’Impero ha applicato ovunque: dividere per governare, cooptare per contenere. Altro che “missione civilizzatrice”: era puro realismo imperiale travestito da tolleranza.

Curtis, scavando tra faldoni del Foreign Office e note del Secret Intelligence Service, ha mostrato che il Regno Unito ha mantenuto per decenni un rapporto ambivalente con l’islamismo radicale: ora lo condannava, ora lo alimentava, sempre lo utilizzava. L’idea era semplice: sostenere i gruppi religiosi contro i nazionalisti laici che minacciavano interessi britannici. Prima in Egitto, poi in Iran, in Afghanistan, in Arabia Saudita. I Fratelli Musulmani divennero, in questa logica, una sorta di utile mostro di laboratorio: troppo fanatici per ammetterli, troppo influenti per ignorarli. Martyn Frampton, nel suo The Muslim Brotherhood and the West (Harvard 2018), ha documentato con freddezza accademica la stessa oscillazione: da Londra a Washington, l’Occidente ha coltivato un rapporto di ostilità e corteggiamento, di “dialogo tattico” con il mondo ikhwanita. Solo che Curtis ha avuto il coraggio di chiamarla con il suo nome: collusione.

Le prove non sono chiacchiere di cospirazione. Sono carte, telegrammi, minute di ambasciate, tutte archiviate nel FO 371 di Kew. Lì si trovano le voci di diplomatici britannici che consigliano “contatti informali” con i religiosi per contrastare i movimenti nazionalisti, e analisi che raccomandano di non spezzare “certi canali” con la Fratellanza anche quando il Cairo li bandiva. È la stessa logica che tornerà nel dopoguerra: durante la Guerra Fredda, gli islamisti erano un antidoto utile al comunismo; negli anni Ottanta, un’arma contro l’URSS in Afghanistan; negli anni Duemila, una leva per smontare regimi laici invisi all’Occidente. Chiamiamola ingegneria dell’instabilità controllata. Nessuno la sa praticare meglio di Londra.

Poi c’è la diaspora ikhwanita nel Regno Unito: organizzazioni caritative, associazioni, moschee, centri di ricerca. Tutti legalissimi, tutti “civili”, tutti curiosamente ben inseriti nel tessuto politico e accademico britannico. Non è un mistero: la stessa Muslim Brotherhood Review ordinata da David Cameron nel 2015 ammette che la Fratellanza è “opaca, transnazionale e potenzialmente indicativa di estremismo”. Tradotto: sappiamo che c’è, sappiamo cosa fa, ma serve troppo per chiuderla davvero. Nel 2016 il Parlamento ha criticato la scarsa trasparenza della Review, ma nessuno ha negato il dato centrale: Londra ospita da decenni la più grande infrastruttura ikhwanita fuori dal mondo arabo. Si chiamano “comunità”, “fondazioni”, “charities”. In pratica, una retrovia ideologica e finanziaria protetta dal liberalismo britannico e, al bisogno, manovrabile per fini di politica estera.

E mentre tutto questo matura sotto la superficie, il cerimoniale reale continua a recitare il suo copione. Dicembre 2024: a Buckingham Palace sbarca Tamim bin Hamad Al Thani, emiro del Qatar, sorridente, educato, perfettamente britannico. Curriculum: Sherborne, Harrow, Sandhurst. Tradizione: monarchia assoluta, connessioni organiche con la Fratellanza, finanziamento sistematico di movimenti e ONG “umanitarie” vicine a Hamas e all’islam politico turco. Doha è il paradiso fiscale della teologia radicale in doppiopetto: Qatar Charity, Eid Charity, Union of Good – organizzazioni finite nei report del Tesoro USA e nei dossier europei per i loro legami con il jihadismo. Eppure, nell’arazzo britannico, tutto torna perfettamente al suo posto: l’emiro è un “all alleato”, un “partner per l’energia verde”, un “leader moderato”. Nella realtà, è l’ennesimo prodotto dell’educazione imperiale: parla inglese con accento di Eton, finanzia guerre per procura e ONG “caritatevoli” che riforniscono militanze. E Carlo III lo riceve con il sorriso paterno del maestro che ritrova un allievo riuscito.

Per chi ha la memoria corta: nel 2010, le cronache della Gaza Flotilla avevano già mostrato la triangolazione perfetta. L’ONG turca IHH, formalmente umanitaria, portava aiuti a Gaza e incidenti sanguinosi in mare; dietro c’erano reti legate alla Fratellanza, il sostegno di Ankara e i fondi di Qatar Charity. È lo stesso schema di oggi: Turchia come braccio operativo, Doha come portafoglio, Londra come garanzia di rispettabilità internazionale. Nulla di “clandestino”, tutto formalmente legale: basta etichettare il fanatismo come “società civile”. Il risultato? La geopolitica si traveste da filantropia, e l’Occidente applaude. Quando poi Carlo vola a Roma nell’aprile 2025 – prima visita dopo la malattia, prima vetrina europea – i giornali parlano di rinascita spirituale, di diplomazia climatica, di un sovrano che unisce passato e futuro. Nessuno ricorda che quattro mesi prima aveva celebrato a Buckingham il patto economico con la monarchia più confessionale e ambigua del Golfo, culla di quell’islam politico che l’Inghilterra, da un secolo, finge di combattere.

Si dirà che il re non decide la politica estera. Vero. Ma il simbolo serve proprio a questo: a coprire le continuità con una mano di vernice morale. La monarchia britannica è il volto pulito del pragmatismo spietato di Westminster. I servizi segreti aprono canali, le banche gestiscono i fondi, la corte riceve gli emiri: il sistema funziona perché ogni parte fa la sua parte. Quando Curtis scrive che “la collusione britannica con l’islamismo radicale è una costante trascurata che ha contribuito alla minaccia terroristica globale”, non indulge alla retorica: descrive la fisiologia di un potere che ha imparato a creare i propri nemici per controllarli. Dal Cairo del 1949 a Doha 2024, la trama non è cambiata di una virgola. Cambiano solo le luci, i titoli e gli inviti a corte.

Il Regno Unito, che ama dipingersi come paladino della democrazia, ha sempre preferito il fanatico manovrabile al laico indipendente. E i Fratelli Musulmani – nati per islamizzare l’Egitto e finiti a islamizzare la geopolitica – sono stati l’alleato perfetto. Oggi gli eredi di al-Banna siedono nei think tank, dirigono ONG, frequentano università britanniche e godono dell’immunità culturale che solo l’Impero sa concedere ai suoi strumenti più utili. Non serve più l’MI6 a distribuire fondi: bastano i partenariati accademici, le fondazioni, i convegni sulla “convivenza interreligiosa”. È la versione 3.0 della collusione: soft power, hard profits.

E così Carlo III, l’ambientalista coronato, continua a fare da garante a un sistema che produce instabilità fuori per garantire ordine dentro. L“’emiro verde” del Golfo compra palazzi a Londra, sponsorizza conferenze sul clima e finanzia media che normalizzano l’islam politico. Il re stringe mani, pianta alberi e parla di sostenibilità. Dietro, il vecchio apparato imperiale incassa. Tutto torna: dagli archivi del Foreign Office alle stanze di Buckingham, la Gran Bretagna resta la maestra insuperata dell’ipocrisia geopolitica. E se qualcuno osa notare le coincidenze – i Fratelli Musulmani come partner informali d’un tempo, il Qatar come cliente d’oggi, la Turchia come braccio operativo – viene accusato di complottismo. Peccato che i documenti, da Kew al Tesoro USA, raccontino la stessa cosa.

E, curiosamente, qualche mese dopo quella visita italiana, le piazze del Paese hanno cominciato a riempirsi di manifestazioni pro-Palestina. Un’ondata di proteste studentesche e sit-in che nessuno, ufficialmente, collega al circuito di ONG e fondazioni già note per i loro finanziamenti esteri. Eppure, gli stessi nomi, gli stessi network, le stesse “solidarietà umanitarie” che orbitano tra Doha e Istanbul ricompaiono tra gli striscioni. Forse pura coincidenza. O forse l’eco – differita nel tempo – di una strategia molto più antica, in cui ogni mossa di palazzo trova sempre un riflesso nelle strade.

Non sono “strane coincidenze”, sono istruzioni di continuità imperiale. Gli islamisti come leva, gli emiri come garanti, la monarchia come scenografia, le piazze come cassa di risonanza. L’arte britannica del dominio non è mai cambiata: sorridere, delegare, incassare. Chiamiamolo pragmatismo, realpolitik, o più semplicemente ipocrisia con blasone.
E a guardar bene le foto di Doha, di Roma e poi delle piazze italiane, pare quasi che il filo sottile che parte dal Cairo degli anni Quaranta non si sia mai spezzato: si è solo dorato con la corona.

Per aggiornamenti senza filtri: t.me/carmen_tortora1

Fonti principali:

  • Mark Curtis, Secret Affairs: Britain’s Collusion with Radical Islam, Serpent’s Tail, 2010 (edizione integrale disponibile su Internet Archive).
  • Mark Curtis, «Britain and the Muslim Brotherhood: Collaboration during the 1940s and 1950s», dicembre 2010, markcurtis.info.
  • Kim Sengupta, «Secret Affairs, By Mark Curtis», The Independent, 29 luglio 2010.
  • Richard Norton-Taylor, «UK’s collusion with Islamists ‘catastrophic’», The Guardian, 5 luglio 2010.
  • AJISS, A.G.E. Sabet, Book Review: Secret Affairs, 2012.
  • UK Government, Muslim Brotherhood Review: Main Findings, 17 dicembre 2015 (gov.uk, Cabinet Office).
  • UK Parliament, Foreign Affairs Committee Report: Political Islam and the Muslim Brotherhood Review, novembre 2016.
  • Martyn Frampton, The Muslim Brotherhood and the West: A History of Enmity and Engagement, Harvard University Press, 2018.
  • Keith Jeffery, MI6: The History of the Secret Intelligence Service, 1909–1949, Bloomsbury, 2010.
  • U.S. Department of the Treasury, Designation of Union of Good and Qatar-based charities for terror financing, 2008–2016.
  • European Parliament Research Service, Qatar Charity and the financing of Islamist networks in Europe, policy briefs 2019–2022.

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