Negoziati, negoziatori e controfigure

Negoziati, negoziatori e controfigure

Il rischio di un countdown senza appelli

di Giuseppe Romeo – Cerchiamo di capire. Il mondo non è al contrario o è impazzito. Lo è l’Europa nelle sue diverse declinazioni quale realtà politica incapace di autogestirsi e di regolare in termini pacifici controversie e crisi. Negando a se stessa la propria rendita di civiltà. Giustificando, se volessimo dare un taglio “filosofico”, quel Tramonto dell’Occidente di uno Spengler che giustamente, seppur con cinica ma onesta lucidità, sanciva nel 1918 la fine della prospettiva faustiana dell’uomo, ovviamente europeo, capace di fare qualunque cosa pur di giustificare il proprio potere. Il proprio dominio sugli altri.

Ci troviamo davanti a una ossessione bellicistica, a un fascino della guerra che si costruisce su una visione parziale e psicopatica della politica e dei suoi leader. Una visione che tiene in ostaggio i destini di un’Europa post-eroica, ammesso che sia mai stata eroica, e del mondo. Se la battaglia contro la Russia è una battaglia di libertà lo era, o doveva esserlo, anche quella per le comunità russofone del Donbass o per i palestinesi

Nulla di tutto questo

La stessa frase di Merz, nella sua impietosa ma lucida retorica teutonica, per la quale “La pace la si può trovare in qualsiasi cimitero. È la nostra libertà che dobbiamo difendere” si presenta come strumentale e priva di ogni senso e logica geopolitica se, ad esempio, sulla triste vicenda di Gaza una delle prime telefonate da cancelliere tedesco è stata indirizzata a Netanyahu per garantire che “La sicurezza di Israele fa parte della ragion d’essere della Germania” mentre il disastro umano dei palestinesi viene sacrificato in nome di un doppio standard giuridico, ben più grave di quello politico, cui l’Occidente del perbenismo che cede all’integralismo globalista nelle sue forme o si piega ipocritamente all’integralismo religioso, ne fa una regola se non un modo di essere.

Insomma, se per un Merz la pace la si trova nei cimiteri bisognerebbe chiedergli se per caso la libertà possa avere un futuro senza conflitti o se, la libertà, diventi tale solo quando non ci si occupi più delle cose del mondo per il solo fatto di non esserci più e di aver conquistato la libertà dello spirito.

Di fronte a simili frasi che denotano una chiara forma di patologia geopolitica da autodistruzione pur di compiacere una sorta di dominio sull’altro, l’Europa prova nuovamente ad affidare il suo futuro a una versione della storia vista da Londra o da Parigi o da una Berlino che sembra voler giocare una carta di un malcelato riscatto storico, magari azzerando una volta per tutte responsabilità del passato che dovrebbero indicargli maggior precauzione. Una visione che si sperava uscita dall’orizzonte della storia, ma tornata a legittimare vecchi rancori piuttosto che porsi a guida di un dialogo necessario.

Ma tutto questo sembra non bastare ancora

Un vero, ottimo, passo avanti verso un futuro di pace, lo fa ancora una volta il primo ministro britannico Starmer che, nelle sue continue dichiarazioni, dimostra quanto e come il Regno Unito tenda a sostituirsi agli Stati Uniti in ambito atlantico. Investire in dodici sottomarini nucleari e altro non è certo un problema. Ogni Stato può spendere come crede per la sua difesa. Tuttavia, ciò che preoccupa è il dichiarare senza pudore che lo sforzo del riarmo, spalmato in dieci anni, è diretto a contenere la minaccia russa. Ovvero, ne individua sin d’ora il nemico.

Ora, al netto della triste fine del TNP (Trattato di Non Proliferazione) firmato anche da Londra ciò giustificherebbe, se interpretata in futuro come una minaccia immanente da parte russa, il ricorso al diritto (non riconoscibile) a condurre una guerra preventiva o, emulando gli Stati Uniti principali utilizzatori di tale possibilità non riconosciuta dal diritto internazionale, a una preemptive war. E ciò vedrebbe la Nato rischiare di dissolversi perché proprio Stati come Slovacchia, Repubblica Ceca, Ungheria e seguiranno man mano gli altri, si sfileranno uno dopo l’altro. In questo dettando, con la fine della Nato, il raggiungimento quel limite storico di un’Alleanza già paventata negli anni Novanta ma sopravvissuta, l’Alleanza, ironia della storia e della politica, grazie alla possibilità di far cooperare Nato e Federazione russa su un piano di dialogo e di reciproco scambio di opinioni in seno all’ormai defunto Consiglio Congiunto Nato-Russia.

Oggi, infatti, non sembra necessario attendere altro tempo e, tra tutti, proprio la Turchia di Erdogan – seguita dallo scetticismo di alcuni ma fondamentali Paesi dell’Est che non sembrano condividere con generosità uno spirito comune tra di essi – sembra averlo compreso e bene ponendosi nuovamente ai confini geopolitici d’Europa ma al centro dei negoziati di un continente allo sbando.

Ecco, allora, che l’idea di sconfiggere o umiliare la Russia sul campo dopo averla snobbata per anni rappresenta, proprio nel momento più delicato di ricomporre un puzzle reso complicato da una miope Europa, un errore di valutazione non solo geopolitica ma culturale, esistenziale. Opposizione a Putin o meno, lo stesso Gorbaciov o un Solgenitsin, dimenticati da quel perbenismo intellettuale del cui pensiero, quando utili, se ne è impossessato, avevano chiaramente avvisato come e in che misura un allargamento della Nato a Est senza considerare le posizioni di Mosca sarebbe stato letto come una minaccia, un’ipoteca geopolitica non accettabile nei confronti della sovranità e sicurezza russa.

In questi giorni un quotidiano nazionale tra quelli cui si attribuisce il rango di fonte autorevole, attribuisce tranquillamente la colpa dell’impasse negoziale al solo Putin senza se e senza ma, il che può anche essere, mentre l’attacco ucraino – condotto negoziati in apertura – ovviamente non è causa di nulla. Così come, ancora una volta, uno Starmer tranquillamente si lascia andare a un precetto con il “prepariamoci alla guerra” (dichiarazione condivisa con quali leader di una UE di cui Londra non ne fa parte, o anche fossero atlantici, non è dato sapere), o una giornalista italiana, sempre sull’autorevole quotidiano, per la quale vale solo la visione ucraina e non russa e con la supponenza che distingue i suoi scritti, afferma senza mezzi termini come l’Ucraina insegni come ci si difende, così come ha insegnato – probabilmente – come e in che termini si garantiscono i diritti delle minoranze in Donbass.

Ma, a coloro che scrivono senza considerare cos’è la guerra quale fenomeno umano prima e politico subito dopo, senza tener conto delle sue aberrazioni o delle sue regole non scritte che pongono a confronto vincitori e vinti, o parti senza pace, cui in molti si affidano per superare quella nebbia che avvolge animi e cuori, bisognerebbe ricordare che i negoziati partono sempre dalla situazione sul campo di battaglia. Che i morti, in ogni caso, chiedono sempre una ragione, un motivo, se esiste, per giustificare il dramma della perdita. Un aspetto con il quale ogni leadership deve fare i conti e, per questo, se non c’è da sorprendersi per le richieste ucraine meno che mai possono sorprendere, risultati sul campo, quelle della Russia.

La Nato rischia di autodistruggersi

Insomma, in questo delirio da guerra eroica ma combattuta con la vita degli altri – dove si alza la posta di un riarmo che sarà, nei termini così dichiarati, risolutivo, certo, ma solo per distruggere il continente europeo una volta per tutte rendendolo un deserto – la Nato rischia di autodistruggersi. La possibilità di sopravvivere era legata alla capacità di ridefinire assetti e direzioni politiche coinvolgendo tutti gli attori continentali come nel 1997 sembrava essere possibile (e in quegli anni non vi erano pretese di sorta da parte russa nei confronti di Kiev. Anzi, la Russia pagava anche gli affitti per l’uso delle basi navali di Crimea).

Tuttavia, dopo aver seguito acriticamente le ambizioni Usa – oggi rientrate per necessità di riorganizzare le loro capacità economiche e, quindi, militari a fronte di anni di fallimenti internazionali – l’Europa orfana del fratello maggiore d’oltreatlantico sembra affidarsi al bonapartismo stucchevole di Macron o al fratello (o sorella dipende dal gender geopolitico che si vuole usare) minore degli Usa rappresentato da Londra o a ciò che sopravvive di un’idea di Reich millenario franato, non per nulla, sui campi di battaglia voluti e creati da un’Europa priva di anima e di memoria.

Probabilmente rileggere Barbara Tuchman e i suoi The Guns of August sembra un esercizio difficile. Ma in attesa di una soluzione finale dei conti in sospeso, le pagine di un libro impolverato potrebbero chiarirci in che modo torneremmo a sbattere contro il muro alzato da una storia che ritiene di non dover più fare sconti a studenti così distratti e presuntuosi che popolano quei luoghi nei quali si decide il destino delle nazioni.

Prof. Giuseppe Romeo https://giusepperomeo.eu

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