Roma, ricercatore musulmano della Luiss: aprire spazi istituzionali all’Islam

Il terrorismo non ha religione. Se ce l’ha, è rubata. «Dirottata», sostiene. Mohammed Hashas è un ricercatore dell’università Luiss di Roma. Musulmano in un articolo di Francesca Sironi su l’espresso  dalla quale riportiamo alcuni stralci significativi per comprendere che sì, gli islamici ci credono e ci trattano da idioti per insinuarsi subdolamente e ottenere piu’ diritti.

OVVERO: L’ISLAM NON C’ENTRA COL TERRORISMO, MA CON PIU’ ISLAM NELLE ISTITUZIONI SI COMBATTE IL TERRORISMO… TUTTO CHIARO??

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«Siamo vittime», dice: «Noi musulmani insieme ai vignettisti di Charlie Hebdo e ai poliziotti. Questa è una tragedia che riguarda tutti noi, in quanto umani e cittadini».

«È a rischio la stabilità sociale», ammette: «La risposta che più di ogni altra potrebbe ora nutrire il terrore è proprio l’islamofobia però. L’additare la colpa all’Islam in quanto religione. L’aumentare la paura del diverso. L’unica forza che può fermare la violenza invece è nelle istituzioni».

Islamofobia? Ecco un esempio: islamici di casa nostra che inneggiano al jihad

La risposta, allora, sostiene il ricercatore, dovrebbe essere quella opposta: «Dopo l’attentato le campagne contro l’Islam riprenderanno voga», scuote la testa: «Ricominceranno le proteste contro le aperture di moschee. Ma questo è più che controproducente. Se avessimo luoghi riconosciuti dalle istituzioni, questi sarebbero anche più controllati. Più accettati. E potrebbero aspirare a un riconoscimento maggiore nelle comunità».

Il problema si pone, continua Hashas, anche nelle prigioni, dove molti giovani lasciano germogliare le frange più estreme della loro fede, com’è successo per uno degli attentatori che hanno guidato il massacro a Charlie Hebdo. «In Gran Bretagna il problema è stato affrontato, con un piano per aiutare, anche finanziariamente, gli imam che prestano servizio nelle carceri. È un diritto dei detenuti. Che va rispettato. E un modo per far capire loro che sono considerati cittadini come gli altri. Non scarti esposti alla rabbia dell’ingiustizia sociale».

C’è però anche un tema che riguarda le comunità islamiche stesse. Da molte parti si fa appello ancora una volta a una presa di posizione, del mondo musulmano moderato, contro le violenze: «Ma questa condanna c’è già», dice lui: «L’hanno espressa ancora una volta leader islamici di tutto il mondo. Continuiamo a farlo. Spesso senza il dovuto riscontro dei media, che invece danno ampio spazio a pulsioni e paure islamofobe».

Ci sono però delle barriere, difficili da abbattere, che restano quali terreni su cui si può scivolare anche conversando con un ricercatore. «Quelle vignette ferivano anche me», ammette Hashas parlando della satira graffiante e “irresponsabile”, come si auto-definisce, di Charlie Hebdo: «Di sicuro su questi temi la sensibilità dei musulmani è alta. Le provocazioni possono essere percepite in maniera diretta e soprattutto ora, esplodere. Nulla giustifica la violenza ma è vero che in un momento così instabile una riflessione forse andrebbe fatta».

Per censurare? Per reprimere quelle voci sì irrispettose forse, ma proprio anche per questo libere? «Non dico questo», risponde Mohammed Hashas: «Dico solo che ora siamo in un momento in cui questa sensibilità è esacerbata. E serve forse una maggiore attenzione. Anche il mondo islamico cambierà, com’è cambiato quello cristiano. Ma oggi è considerata ancora una blasfemia inaccettabile la ridicolizzazione del profeta».

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