Il fallimento di Obama

di Vincenzo Merlo

Barack Obama

Quali le ragioni profonde della impetuosa e sorprendente crisi finanziaria che rischia di far precipitare il pianeta in una nuova, pesante recessione? Quali le responsabilità dei governi e le possibili vie d’uscita?

Cominciamo col dire che questa crisi sembra figlia di quella del 2007-2008. Allora esplosero i mutui subprime statunitensi (dovuti alla bolla immobiliare) che a poco a poco trascinarono al crollo della “Goldman Sachs” e da questo alla crisi di solvibilità delle grandi banche americane; il tutto in un contesto da “turbocapitalismo” avanzato, dove la cosiddetta “finanziarizzazione” dell’economia la faceva da padrona rispetto alle effettive capacità produttive. I nuovi prodotti del mercato finanziario, a partire dai derivati e dai futures (e cioè le scommesse, e addirittura le scommesse sulle scommesse degli andamenti futuri delle imprese) giocarono infatti un ruolo determinante nel costruire castelli di carta, non rispondenti all’economia reale.

“Servono più regole e più controlli per fronteggiare il turbocapitalismo e i suoi eccessi”, si disse da più parti, a partire dal nostro saggio ministro Tremonti. A distanza di tre anni si constata con amarezza che nei più importanti consessi internazionali non si è dato ascolto a quei moniti e nessuna regola e nessun controllo seri sono stati adottati. Ma c’è di più: alla crisi di tre anni fa la maggior parte dei governi ha risposto con ricette tipicamente keynesiane, vale a dire più spesa pubblica. Invece di provare a fare pulizia nei bilanci e a non fare aumentare le spese, si è cercato di tamponare la falla nel modo peggiore, da sprovveduti di economia. È il caso, eclatante nei numeri, dell’amministrazione Obama, che è riuscita, nel breve volgere di due anni e mezzo, a far salire il rapporto tra il debito pubblico americano e il pil, dal 69.4 (anno 2008), al 102% (stima per fine 2011). Un vero e proprio suicidio finanziario, la cui portata non ha eguali nella duecentoquarantennale storia degli Stati Uniti d’America. Se la matematica non è un’opinione, il debito pubblico americano è salito cioè di più di dieci punti all’anno, arrivando ora a toccare 152.270,74 miliardi di dollari (di cui il 40% in mani straniere).

Certo le tre agenzie di rating hanno troppo potere e in qualche caso sbagliano grossolanamente conti e previsioni, ma non ci vuole un esperto per capire il baratro in cui sono finiti gli Usa a causa delle teorie keynesiane di Obama e dei democratici. La ricetta del “tassa e spendi” è stata fatta propria anche da altri Stati (soprattutto europei), ma non nei numeri impressionanti del disastro americano; come dimenticare, poi, che in Italia il Partito Democratico degli “esperti” economici Bersani e Letta (supportati dagli alti papaveri di “Repubblica”, a partire da Mauro e Zucconi), chiedeva a gran voce proprio il ricorso al “tassa e spendi” obamian-keynesiano, imputando al governo Berlusconi di non spendere abbastanza? Ecco ora i risultati di questi dilettanti allo sbaraglio, vera e propria disgrazia per i popoli che li devono sopportare!

Se da un lato, dunque, la crisi di tre anni fa ha mostrato tutti i limiti e le insufficienze del “turbocapitalismo” sfrenato, senza limiti e senza controlli, la crisi attuale dimostra che le ricette keynesiane, imperniate su iniezioni massicce di spesa pubblica, non fanno altro che peggiorare le cose, dilatando i debiti statali senza andare alla radice dei problemi; che, in un contesto di globalizzazione, ci conducono dritti dritti alle tematiche della diversa produttività dei sistemi. Come è possibile fronteggiare la concorrenza economica asiatica (soprattutto cinese e indiana) se in quei sistemi non sono previste le sacrosante tutele normative in appoggio ai lavoratori, adottate in Occidente? Se gli operai cinesi lavorano 60-70 ore a settimana, senza i diritti e le protezioni riconosciute da noi, come si potrà concorrere con loro? Purtroppo l’alternativa è secca e drammatica: o si occidentalizzano loro o ci (Dio non voglia!) cinesizziamo noi; tertium non datur!

Ecco allora la necessità di concertare un’armonizzazione delle regole dei mercati del lavoro. Altroché libero ingresso dei prodotti asiatici nei nostri Paesi! Altroché delocalizzazioni! Scendendo “giù per li rami”, non possiamo nascondere che l’Europa è sempre più lontana dalle attese dei propri cittadini.

L’Euro fu vera gloria? Si è mai visto nella storia una unificazione monetaria prima di quella politica? Mai. E infatti…

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