L’Occidente piange Gaza ma arma il resto del mondo
di Carmen Tortora – C’è un’economia anche nel dolore, e come ogni mercato, ha le sue gerarchie. Ci sono guerre di serie A – quelle che conviene mostrare, raccontare, trasformare in simboli – e guerre di serie B, che si nascondono sotto il tappeto dell’indifferenza. Gaza è il prototipo della prima categoria: una tragedia autentica, ma funzionale, usata per nutrire la macchina mediatica globale e offrire all’Occidente un comodo specchio della propria coscienza sporca. Nel frattempo, in mezzo continente africano si muore a ritmi biblici – milioni di morti in vent’anni – senza che nessuno si commuova più.
Dal 7 ottobre 2023 al 3 ottobre 2025, nella Striscia di Gaza sono morte oltre 67.000 persone, secondo il Ministero della Sanità locale; Reuters e The Lancet parlano di un totale reale che può superare 80.000 decessi se si includono le morti indirette per fame e malattie. Parliamo di una persona uccisa ogni quindici minuti per due anni consecutivi in una popolazione di appena 2,3 milioni di abitanti. Ma perché l’Occidente tenta di gonfiare i numeri forniti dal Ministero della Sanità palestinese? Forse perché serve a mantenere il racconto sotto controllo: una tragedia gestibile, utile per il palinsesto emotivo globale.
Nel Darfur e nel resto del Sudan, la guerra scoppiata il 15 aprile 2023 tra l’esercito regolare (SAF) e la milizia RSF ha già provocato oltre 150.000 vittime e più di 11 milioni di sfollati — il peggior disastro umanitario del pianeta. In Etiopia, la guerra del Tigray (2020-2022) ha fatto circa 600.000 morti in due anni; nella Repubblica Democratica del Congo, dal 1998 a oggi, i morti superano i sei milioni; nel Sahel, tra Mali, Niger e Burkina Faso, dal 2015 si contano oltre 40.000 vittime; in Somalia, la guerra permanente contro al-Shabaab uccide 7.000 persone l’anno da oltre tre decenni. Totale: più di 7 milioni di africani uccisi in venticinque anni, contro i 67.000 palestinesi in due anni. Ma l’opinione pubblica occidentale conosce solo questi ultimi.
Perché? Perché Gaza è utile. Perché la narrazione di un piccolo popolo assediato da una potenza tecnologica permette a media e governi di giocare con le emozioni senza toccare i propri interessi. Mentre la strage africana, invece, scoperchierebbe un vaso di Pandora fatto di miniere di cobalto, armi europee, traffici di droni e affari con regimi sanguinari. L’Occidente piange Gaza ma arma il resto del mondo. Le stesse fabbriche che producono missili “difensivi†per Israele forniscono fucili e sistemi di sorveglianza all’Egitto, al Ciad, al Sudan, all’Etiopia. Secondo i report SIPRI, tra 2013 e 2023 le esportazioni di armi europee verso l’Africa subsahariana sono aumentate del 32 %, mentre il commercio con Israele è cresciuto del 41 %. L’indignazione è selettiva, calibrata sugli interessi: serve a mantenere viva la colpa morale ma anche il ciclo economico del complesso militare-umanitario. Ci si commuove per Gaza perché lo schermo è pulito: c’è un aggressore chiaro, un aggredito riconoscibile, e nessun rischio di scoprire che nel frattempo il proprio governo fornisce pezzi di artiglieria a un’altra guerra più redditizia.
Nel frattempo, mentre l’Europa tace sulle guerre africane, si moltiplicano le manifestazioni pro-Palestina in ogni capitale europea: cortei colorati, bandiere, slogan ripetuti a memoria. Ma dietro quella mobilitazione “spontanea†c’è un intreccio di reti ben più organizzate. Molte delle iniziative sono sostenute da ONG legate ai grandi circuiti della finanza globale – la Open Society di George Soros, la Rockefeller Brothers Fund, o i network della Ford Foundation – che finanziano associazioni e movimenti di piazza sotto l’etichetta del “diritto umanitario internazionaleâ€. La “Freedom Flotillaâ€, per esempio, è in parte coordinata da ONG turche come la IHH (İnsan Hak ve Hürriyetleri Vakfı), nota per i suoi legami con i Fratelli Musulmani e per aver ricevuto finanziamenti indiretti da fondi provenienti dall’Europa e dal Golfo. Queste operazioni “solidali†navigano su confini sottili tra aiuto umanitario e operazione politica: servono a modellare la narrativa globale, a orientare l’opinione pubblica occidentale e a consolidare un consenso emotivo funzionale alla geopolitica.
Ma questo non è l’unico motivo, e forse oggi è persino quello secondario. Mentre le bombe cadono, l’Europa sta portando avanti un esperimento sociale di proporzioni epocali: la religione senza volto. Ufficialmente lo chiamano “neutralità â€, ma il vero obiettivo è un altro – abituare le persone a vivere senza identità , senza radici, senza segni visibili che ricordino chi siamo o cosa crediamo. Non si tratta solo di evitare tensioni religiose: si tratta di normalizzare l’anonimato spirituale, rendendo invisibile ogni differenza, affinché nessuno possa più distinguere il credente dall’indifferente, la vittima dal carnefice, la tradizione dall’ideologia.
Dal 2017 a oggi, quattordici paesi dell’Unione hanno introdotto divieti totali o parziali del burqa e del niqab, e nel 2024 la Commissione europea ha discusso linee guida per vietare tutti i simboli religiosi nei luoghi pubblici – croci, rosari, turbanti, veli, perfino piccoli ciondoli. In Francia, la legge sull’“abito laico†del 2023 ha bandito qualsiasi segno “ostentativo†in scuole e uffici pubblici; in Belgio, Austria e Danimarca il divieto del velo integrale si estende ai trasporti e agli ospedali; in Italia si prepara una norma simile “per ragioni di sicurezza e riconoscibilità â€. Ma dietro la parola “neutralità †si nasconde una strategia di desensibilizzazione collettiva: cancellare le identità visibili per rendere tutto intercambiabile. Quando nessuno porta più simboli, si perde anche la capacità di riconoscere la violenza o il fanatismo. Una donna velata e una costretta a esserlo diventano, agli occhi del cittadino medio, la stessa figura neutra. La fede, ridotta a questione privata, smette di orientare la società e diventa un accessorio da nascondere.
Eppure, mentre vietano i simboli religiosi, gli Stati europei finanziano con denaro pubblico la costruzione di moschee e centri islamici. Secondo la Corte dei Conti europea (2024), almeno 1,1 miliardi di euro sono stati assegnati a “progetti di inclusione culturale e dialogo interreligioso†che comprendono la realizzazione o il restauro di luoghi di culto musulmani. In Francia, dal 2020 al 2024, sono sorte più di 300 nuove moschee con fondi pubblici; in Germania i Länder hanno cofinanziato oltre 250 centri islamici; in Italia, il Fondo per l’inclusione 2022 ha stanziato 45 milioni di euro anche per spazi di preghiera islamici. È il paradosso perfetto della tolleranza occidentale: si vieta il velo, ma si finanzia il minareto. Si elimina la croce, ma si promuove l’“Islam europeoâ€.
Il risultato è una società sterilizzata visivamente e moralmente: niente croci, niente veli, niente turbanti, niente identità . Tutti uguali, tutti anonimi, tutti intercambiabili. Quando la religione diventa invisibile, diventa anche incontestabile. Nessuno può più collegare un atto di violenza a un contesto ideologico, perché il contesto stesso è stato rimosso. È un progetto politico e culturale preciso: rimuovere la riconoscibilità per rimuovere la responsabilità . Non vedrai più il fanatismo perché non potrai più identificarlo; non riconoscerai più la fede autentica, perché ti avranno insegnato a considerarla una reliquia del passato. Ti diranno che non ci sono più religioni, solo “cultureâ€; che non esistono più persecuzioni, ma “divergenze socialiâ€.
Così, mentre nel Sahel o in Nigeria ogni anno vengono uccisi più di 5.000 cristiani da milizie jihadiste, in Europa si discute se sia offensivo esporre un presepe o augurare “Buon Nataleâ€. E intanto, a colpi di regolamenti, direttive e campagne “inclusiveâ€, si costruisce un continente privo di volto, dove nulla resta da difendere perché nessuno ricorda più cosa significhi credere. Gaza, nel frattempo, continua a essere l’argomento perfetto: un catalizzatore di emozioni, sensi di colpa e slogan morali che permettono all’Occidente di ignorare i propri conflitti interni e di cancellare la propria identità culturale in nome dell’universalismo. Si piange dove conviene, si tace dove si commercia. Il Sudan e il Congo non hanno social media manager; Hamas sì. Le guerre senza Wi-Fi non fanno indignazione.
Dal 1998 al 2025, nel mondo africano si contano oltre 7 milioni di morti ignorati. Dal 2023 al 2025, a Gaza oltre 67.000 morti diventano icone. L’Europa, mentre si strugge per una guerra, finanzia con miliardi pubblici la costruzione di moschee, vieta i simboli religiosi in nome della neutralità e anestetizza la propria coscienza culturale. Il risultato è una civiltà che non distingue più tra fede e manipolazione, tra libertà e sottomissione. Una civiltà che censura la croce e innalza minareti, che vieta il burka ma vieta anche il presepe, che non difende più né l’uno né l’altro perché ha imparato a non vedere. Così lo “strano caso della Palestina†non parla solo del Medio Oriente, ma dell’Europa stessa: un continente che seleziona le sue guerre come spot pubblicitari e cancella i propri simboli solo per raggiungere i propri obiettivi più abietti.
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