Oggi vorremmo celebrare la libertà e non si comprende per chi e da cosa, o forse è sin troppo chiaro ma ci vogliono menti illuminate e chiaroveggenti
di Giuseppe Romeo – Celebrare delle ricorrenze può significare molto o nulla. Può essere il trionfo di un ricordo o l’apoteosi di una ipocrisia. Il dramma mai svelato di una incoerenza culturale e politica sulla quale l’opportunismo costruisce la sua esistenza e mantiene la sua longevità assicurandosi l’esercizio di un potere che non dovrebbe aprire porte alle mediocrità o alle falsità tipiche di storie narrate solo per giustificare se stessi.
Storie, nelle quali si dissolvono passati scomodi o si ricostruiscono nuovi pedigree ideologici per coloro che ambiscono a essere salvatori di popoli che subiscono piuttosto che essere artefici della loro libertà. Popoli che non riconoscono i migliori e che si rifugiano dietro predicatori prestatisi alle arti di una politica di partito. L’Italia repubblicana, l’Italia nata dalla resistenza ad un totalitarismo prima voluto e poi rinnegato è di per sé il laboratorio di come la crescita di un popolo non la si misura solo con le dietrologie o con le vittorie.
Ogni resistenza è di per sé una guerra civile e una guerra civile è una sconfitta per una nazione. Perché divide i suoi figli tra buoni e cattivi, tra chi ha la verità nelle sue mani e chi è portatore di imposture, senza chiedersi, poi, se le imposture possano avere un colore, nero, rosso o giallo. Un giallo, con qualche stella adamantina che stenta a splendere ormai nascosta dall’essere partigiana dello stesso potere da cui voleva nuovamente liberare questo popolo sperduto, dispersosi nelle nebbie di un virus che liberamente fà e disfà ogni libertà conquistata, compresa quella di pensare, di muoversi, di vivere insomma.
In questo giorno nel quale si distendono tricolori un tempo offesi perché troppo nazionalisti o si usa il termine di Patria, altrettanto vietato da una narrativa di parte per decenni, il culmine dell’ipocrisia si raggiunge nel dover sperimentare, in nome di un costituzionalmente non ben compreso valore della salute pubblica, misure liberticide che rappresentano la negazione stessa di ciò che coloro che le propongono oggi vorrebbero celebrare. Un popolo ostaggio della paura e che non reagisce alla vita dimostra come e in che misura tutto sia stato inutile se non per una semplice, piccola parte di una storia già decisa da altri e altrove. Dai vincitori ieri e dagli eredi di una politica senza anima giunta ormai alla sua massima espressione, dopo aver bruciato ogni residuale dignità culturale e anche ideologica se mai fosse, il passo verso il banale è breve.
D’altra parte, da una nazione che dimentica quanto non fu convincente neanche la proposta repubblicana con un futuro presidente della Repubblica, pluricelebrato economista liberale, che ammise di aver votato monarchia al referendum, che cosa ci si poteva aspettare se non un esercizio a giocare ad un nuovo monopoli pseudodemocratico? Così come non mancarono leader Migliori che guardavano come luce divina da grande timoniere europeo ad un certo Josif Stalin, probabilmente un filantropo incompreso, un fine politico che per garantire il futuro del suo potere non esitò a far assassinare Trotsky come milioni di kulaki (noi li chiameremmo oggi coltivatori diretti) e milioni di perseguitati morti nelle celle della Lubjanka o nei campi siberiani di sterminio progressivo; campi, questi ultimi, che chiamarli Gulag è sembrato per decenni politicamente più dignitoso. Ma certo.
Ricordare questo diventa complicato perché alla fine, tra ex professori di mistica fascista rigeneratisi in democristiani di alto profilo e falsi rivoluzionari con i portafogli a destra e l’Unità sottobraccio tutto poteva sembrare possibile come il tradire le aspirazioni degli italiani dell’Istria e della Dalmazia per svendere quanto restava di un sussulto possibile di dignità ad Osimo nel 1975. Oggi vorremmo celebrare la libertà e non si comprende per chi e da cosa, o forse è sin troppo chiaro ma ci vogliono menti illuminate e chiaroveggenti. Laddove il faro costituzionale ha solo periodi di ombra e poca luce, c’è chi deporrà corone o reciterà la lezione da post-segreteria politica per dire che la Resistenza fu solo o soprattutto rossa.
Eppure essa fu bianca, azzurra, verde e grigioverde o nera con bande rosse o con pantaloni stracciati. Perché resistere era per molti un modo di pensare e di credere senza riserve mentali. Oggi assisteremo in una regione come la Calabria, e come tutto il Sud, che votò in maggioranza per la monarchia al referendum allo sfilare di nuove reclute senza storia pronte a sostituirsi ad una narrativa che ha distrutto, nel suo essere massimizzante e poco incline al confronto, la sua memoria da sola perché continua ad escludere e non a includere. La stessa narrativa che celebra eroi che eroi non furono.
Come coloro che dopo aver deciso l’attentato di via Rasella non si consegnarono alle forze occupanti tedesche, assumendosi la responsabilità dell’azione condotta e per tentare almeno di salvare 335 fratelli italiani o, se ciò non fosse accaduto, di seguirne le sorti. Nell’assenza di questo coraggio – che non mancò invece ad altri italiani senza per questo declinare appartenenze politiche, ma solo l’essere uomini e donne e uccisi per gesti che non furono loro – nell’assenza della forza di un’idea di nazione si è costruito un mito fragile e che oggi giustifica, nella sua fragilità, derive pericolose che attentano alla nostra libertà.
Conobbi da piccolo a Taurianova un vero partigiano. Ne avrei poi conosciuti tanti altri negli anni a seguire e di ogni colore possibile. Tuttavia ricordo questo signore perché uno dei pochi che può definirsi tale in Calabria. Ci passavo spesso e a volte vi compravo la frutta. Una figura che non aveva una storia costruita su misura per avere potere e vantaggi. Era e rimase un negoziante di frutta, ma fu un combattente con Pertini. Non l’ho mai visto vantarsi di nulla e non lo vidi parte del gioco politico. Ma capii che anche lui era vittima di una verità a più facce non comprensibili in tempi non maturi. Era un partigiano socialista, non un partigiano tinto di quel rosso vivo che piaceva alle piazze perché la differenza tra partigiani di serie A e di serie B fu certo un sistema di selezione.
Ecco, allora, che compresi, e ebbi le conferme man mano che mi avventuravo nelle storie del Nord Italia, che la libertà non ha colori. Essa finisce per aprire squarci inimmaginabili prima o poi. Il tempo ripaga sempre dalle mistificazioni e dalle rese dei conti spacciate per antifascismo, confondendo ciò che è storia e ciò che è comportamento. E, in quest’ultimo caso, fascismo, comunismo, post-maoismo pentastellato con derive di liberi, ma che non vogliono uguali, diventano sinonimi del declino di un Paese, responsabili dell’ennesimo scempio della storia di una giovane e ingenua democrazia… o almeno, di ciò che di essa ne rimane!