Il Grande Saccheggio Sanitario

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Il Grande Saccheggio Sanitario: come il PABS dell’OMS prepara l’era dei patogeni centralizzati e dei profitti globali

di Carmen Tortora – Il cuore del nuovo apparato pandemico globale non è la salute pubblica, né la prevenzione, né la solidarietà internazionale che l’OMS continua a sventolare in ogni conferenza. Il fulcro, il vero motore, la matrice dell’intero dispositivo è un acronimo anodino, quasi tecnico, che però trasuda potere: PABS – Pathogen Access and Benefit Sharing System. Siamo davanti a un sistema di accesso e ripartizione dei benefici che, dietro la retorica dell’equità e della preparazione, costruisce un meccanismo centralizzato per raccogliere agenti patogeni, sequenziarli, archiviarli e distribuirli non agli Stati sovrani, ma alla costellazione di laboratori, fondazioni e consorzi privati che orbitano attorno all’OMS come satelliti famelici.

Il testo negoziale in discussione – quello che gli Stati membri fingono di scrivere, ma che in realtà è modellato dal solito “Ufficio di presidenza†dell’IGWG – definisce un sistema universale per identificare rapidamente i cosiddetti patogeni sospetti di pandemia, estrarne i dati genetici e inviarli al BIO-HUB svizzero, una sorta di banca centrale dei virus. Da lì, le sequenze partono per i laboratori della rete WCLN, la World Collaboration Laboratory Network, che non è un’istituzione pubblica, ma una rete di partnership pubblico-private che da anni si muovono come un cartello: CEPI, GAVI, Wellcome Trust, Gates Foundation, IFPMA. Tutti presenti, tutti coinvolti, tutti già pronti a trasformare il materiale genetico in prodotti brevettati.

La narrativa ufficiale descrive il PABS come uno strumento di equità. Nella realtà, il suo scopo è evidente: garantire flussi di dati biologici costanti e rapidi, accessibili ai grandi sviluppatori di vaccini, diagnostica e terapie, vincolando gli Stati a cedere il materiale genetico alla banca centrale patogena mentre la promessa di condivisione dei benefici resta un vago impegno opzionale, ripetuto più come mantra che come norma.

La conferma arriva proprio dai negoziati, che nelle giornate di lunedì e martedì sono stati una sfilata tragicomica di dichiarazioni indignate, rivelazioni involontarie, scivoloni retorici e una quantità tale di tecnica Delphi da far sembrare l’intero incontro la versione sanitaria di un’operazione psicologica. Nessuno Stato è realmente in controllo. Nessuno Stato scrive davvero il testo. Tutti fingono di partecipare, mentre dietro le quinte i soliti attori privati tirano la corda e dettano le condizioni.

Eppure, gli interventi degli Stati africani hanno squarciato per qualche minuto il velo di ipocrisia. La Namibia ha ricordato all’assemblea di appartenere a un popolo che ha resistito al colonialismo, che ha combattuto l’apartheid e che oggi riconosce perfettamente il nuovo travestimento dell’assoggettamento globale: l’apartheid sanitario. Ha denunciato l’assurdità di un sistema che pretende obblighi ferrei per la cessione dei patogeni, ma lascia totalmente opzionale la condivisione dei benefici, cioè dei profitti generati dai vaccini sviluppati sui materiali biologici degli stessi Stati requisiti.

Sulla stessa linea anche Tanzania e Repubblica Centrafricana, che hanno messo il dito nella piaga: senza accesso vincolante a vaccini, cure e diagnostica, il PABS non è equità. È estrattivismo biologico. È colonialismo genetico 2.0. È il perfetto schema in cui il Sud globale offre materia prima biologica gratuita e il Nord globale incassa profitti miliardari rivendicando pure virtù etiche.

Il Sudafrica è andato oltre, denunciando non solo la sproporzione, ma anche l’oscuro processo redazionale: il documento del 24 ottobre è un copia e incolla travestito da proposta negoziale. L’Ufficio dell’OMS ha ignorato centinaia di pagine di contributi reali, presentati dagli Stati, per sostituirli con un testo scritto altrove, probabilmente in qualche tavolo parallelo popolato dai soliti sponsor farmaceutici e dai loro consulenti legali.

Ma il vero momento rivelatore è arrivato da CEPI, la Coalition for Epidemic Preparedness Innovations, che con disinvoltura ha dichiarato di voler costruire un sistema a prova di futuro in cui i dati genetici globali, raccolti in tempo reale, alimentino algoritmi di machine learning in grado di generare antigeni sintetici pre-pandemici. Una fabbrica automatizzata di vaccini predittivi, pronti prima ancora che la malattia si manifesti. Un motore di preparazione pandemica basato sull’intelligenza artificiale, chiamato Pandemic Preparedness Engine.

È l’ammissione più esplicita del progetto: una pipeline continua dal prelievo di materiale biologico alla produzione industriale. Gli Stati forniscono patogeni; CEPI e partner trasformano i dati in vaccini-prodotto. E tutti gli obblighi di benefit-sharing restano, guarda caso, flessibili, negoziabili, interpretabili. Un’oligarchia biotech globale che usa l’OMS come cornice giuridica.

Il resto del dibattito non è stato migliore. La Rete del Terzo Mondo, in un intervento ambiguo, ha svelato involontariamente il gioco: i benefici non sono prodotti, ma profitti. E la priorità non è la giustizia, ma l’accesso ai materiali biologici, perché la ripartizione dei profitti si vedrà dopo, purché l’accesso sia garantito subito, senza condizioni.

A rendere il quadro ancora più cupo si è aggiunta la voce della giurista tedesca Beate Pfeil, che ha messo in guardia contro la riscrittura del Regolamento Sanitario Internazionale. Ha denunciato il rischio di erosione dei diritti fondamentali, della libertà di espressione, dell’integrità scientifica e della sovranità nazionale.

Nel frattempo, i documenti interni dell’OMS contraddicono la narrativa ufficiale: la celebre frase nothing is decided until everything is decided è stata gettata alle ortiche. L’Assemblea Mondiale della Sanità ha approvato il trattato pandemico lasciando fuori proprio il PABS, cioè la sua parte più controversa. E per compensare l’imbarazzo, l’OMS ha invitato gli Stati ad applicare il PABS prima ancora che venga approvato, in caso di pandemia.

Il punto cruciale è che il PABS non è un accordo tecnico. È un meccanismo politico di trasferimento di sovranità biologica, dal livello nazionale a un centro globale controllato da una governance ibrida, in gran parte privata. Il Nagoya Protocol del 2010 proteggeva espressamente la sovranità degli Stati sulle risorse genetiche. Il PABS fa il contrario: la indebolisce, e in alcuni passaggi la annulla.

La struttura finanziaria è altrettanto opaca: un flusso di contributi obbligatori destinati a un fondo gestito da OMS, GAVI, CEPI e UNICEF, senza obblighi di trasparenza o meccanismi di controllo indipendenti.

Il diritto di proprietà intellettuale, poi, diventa terreno di conquista: l’accesso libero ai dati genetici permette la brevettazione privata di sequenze biologiche derivate da materiali appartenenti agli Stati. È l’appropriazione di risorse comuni senza compensazione.

In questo contesto, parlare di processo guidato dagli Stati membri è semplicemente falso. La trattativa è guidata da attori finanziari e industriali che hanno conquistato un peso sproporzionato nella governance sanitaria globale.

La vera questione politica è semplice: chi deciderà delle risorse biologiche del pianeta? Gli Stati o un consorzio internazionale misto pubblico-privato, formalmente sotto l’ombrello dell’OMS ma sostanzialmente guidato da interessi privati?

Il trattato pandemico non offre protezione, diritti, né garanzie per i cittadini. È un accordo verticalizzato che opera sulla produzione farmaceutica, sulla sorveglianza patogena e sullo scambio di dati. Il suo impatto reale non è la salute pubblica, ma la riorganizzazione dell’economia sanitaria globale.

Conclusione: il PABS non è uno strumento di cooperazione. È un meccanismo di centralizzazione del potere biologico, un trasferimento dall’autonomia degli Stati a un sistema gestito dall’OMS e dai suoi partner. Non è la promessa di equità; è la promessa di un mercato mondiale delle sequenze genetiche dove i benefici non sono cure, ma profitti.

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