Dittatori à la page

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Più che prendersela con i dittatori, ci si dovrebbe chiedere chi ha creato le situazioni che gli hanno aperto le porte

di Emiliano Scappatura – Ci mancava solo il fantasma di Pinochet in quest’epoca di personalismi, e tutta una pubblicistica urla indignata. Ma noi crediamo che se un cadavere torna a fare paura è solo perché, a suo tempo, invece di seppellirlo con una sana autocritica si è preferita la scorciatoia più comoda, e più ipocrita, di un mare di retorica.

Augusto Pinochet si è guadagnato la fama d’essere uno dei più spietati e detestati dittatori del secondo Novecento, in un periodo cioè in cui i dittatori non sono certamente mancati e anche, sebbene lui non ci andasse piano, con la mano pesante. Il suo Cile divenne il simbolo dell’abominio e un’offesa stessa all’idea di libertà politica, tanto che l’idea stessa di affrontarne le nazionali sportive era da considerarsi degradante: la stessa Unione Sovietica rinunciò al mondiale pur di non affrontarlo, e in Italia si aprì un dibattito politico se fosse eticamente lecito andare a Santiago a giocare la finale di Coppa Davis.

Eppure nel mondo c’era molto di peggio, ma non provocava nessun ripensamento. Cosa aveva dunque fatto di tanto riprovevole il generale per meritare tanto astio? Temiamo che a incidere sulla sua cattiva fama siano state non tanto le sue azioni ma l’andare incontro alla propaganda di un certo sistema che non guardava tanto quel che eri, ma quello che rappresentavi.

Pinochet aveva contro di sé due cose che nel mondo della guerra fredda lo rendevano irrimediabilmente uno sgradito. Era un dittatore, e quindi non poteva piacere al mondo libero dell’Occidente che lo guardava di sottecchi come un usurpatore della democrazia. Ma era anche, da dittatore, un uomo di destra, e quindi non poteva piacere neanche all’altra metà del mondo che di dittatori ne produceva a iosa, ma in nome del popolo. Nell’accostare queste due sue qualifiche, nel mondo del dopoguerra Pinochet era quindi destinato ad essere un isolato, almeno ufficialmente.

Ma chi racconta la storia ha il compito di non fermarsi alla propaganda e di andare oltre, anche a costo d’essere circondato da sguardi accigliati. E, in un fenomeno che è terminato da qualche decennio e per cui la storia mette ormai a disposizione tutti i dati per una analisi più corretta, questo compito è d’obbligo. Eppure questo non sembra avvenire e Pinochet continua ad essere visto più con gli occhi dell’ideologia che con quello dei dati storici. E permea i commenti di tutta una pubblicistica che urla per l’elezione di Antonio Kast in Cile.

Ma noi crediamo che se a distanza di anni questa figura risulta così ingombrante è proprio perché tutta una nazione non ha accettato di studiare le dinamiche storiche che la hanno partorita. È un modo che hanno le nazioni per autoassolversi ed evitare di guardarsi allo specchio. Ma quando tutto si riduce alle azioni del singolo, la storia si riduce a una specie di fumetto. E fino a che i cileni continueranno a dirsi che tutto è stato possibile solo perché un uomo astuto e crudele ha voluto rovinare un mondo dove tutto andava bene, allora questa figura continuerà a non dir loro nulla.

La storia risponde solo a chi le fa le domande giuste. Il che non significa, naturalmente, riabilitarlo, ma solo comprendere come tutta una cosa sia stata possibile. Analizzare, onestamente, la sua figura e contestualizzarla storicamente, senza continuare a dire che ha ucciso la democrazia nel suo paese e innalzare Allende a sant’uomo e a martire della libertà. Altrimenti, detta così, le risposte che si dovrebbero dare sarebbero molte di più di quelle che questa impostazione pretende di risolvere, prima tra tutte per quale motivo uno Stato, unica isola felice in un continente di generali che si alternano al potere e la dittatura non l’aveva mai conosciuta, a un certo punto finisce per consegnarsi all’esercito.

In realtà il Cile di Allende era ormai una nazione dove la democrazia si era profondamente deteriorata. Una serie di scellerate riforme radicali avevano ormai portato l’economia vicino al collasso e avevano acuito gli scontri sociali. Il clima di insurrezione era nell’aria e già c’era stato un tentativo che era stato bloccato, ma ormai l’aria era pesante, ci si fidava poco di tutti e Pinochet era stato da poco nominato alla guida dell’esercito proprio perché tra tutti era ormai considerato, ed è tutto dire, quello di cui ci si poteva fidare di più. Ci si aspettava, insomma, la destabilizzazione politica, da una parte o dall’altra.

Quella che Pinochet uccise, quindi, non fu una democrazia, ma i suoi brandelli. Forse evitò una guerra civile, ma questi sono gli eterni dilemmi della storia. A noi tornano solo in mente le parole di Azaña Ruiz sulla guerra civile in Spagna: “Da qui verrà fuori una dittatura, se di destra o di sinistra non so, ma non più uno Stato liberoâ€.

Naturalmente poi Pinochet fu un dittatore e si comportò come tale. E quindi ogni parola sulle epurazioni diventa quasi retorica. Analizzare le morti e i processi per sottolineare quanto fu duro diventa persino sciocco così come contarli al centesimo per stupirsene. Fu un dittatore di destra che “ripulì†il Cile da tutti i dissidenti comunisti e naturalmente si fece pochi scrupoli sulle procedure giuridiche che si sarebbero adottate. Altrimenti la sua funzione non avrebbe avuto senso. Ma questo accadeva da tempo in tre quarti del mondo, e non si scandalizzava nessuno, tranne che se accadeva nel Cile, appunto. Non che fosse una bella cosa, naturalmente.

Ma quello che contraddistinse i rapporti del mondo con Pinochet fu l’ipocrisia, sia dei nemici, sia degli amici. Di quelli che lo detestavano, e facevano di peggio; e di quelli che lo giustificavano perché capivano che non poteva fare altrimenti, ma non potevano stringergli la mano se non di nascosto, perché era un uomo infetto.

Fino a che, rimessa in sesto economicamente (aveva chiamato a farlo il meglio che gli si offriva in quel periodo, gli uomini della scuola di Chicago) una nazione che aveva preso disastrata, chiese infine ai cileni se lo volevano ancora o se andare via. Erano passati quindici anni. Il referendum rispose che si rivoleva la democrazia. Ma, su circa sette milioni di votanti, oltre tre milioni gli chiesero di rimanere: forse in realtà il Cile di Pinochet non era così cattivo come quindici anni di propaganda lo aveva dipinto. E il suo successore, Patricio Aylwin, riconobbe con sincerità che con Allende forse ci si stava avviando a una dittatura ancora peggiore, quel castrismo che, nato prima di lui è a lui sopravvissuto.

Ecco perché, studiando questi dati, non ci stupiamo che adesso un seguace di Pinochet sia stato eletto alla presidenza. A noi che amiamo la democrazia i Pinochet e chi inneggia a lui non destano simpatie, ma se si fanno i conti con la storia questa figura ingombrante, una volta contestualizzata, alla fine si scoprirà che nella storia cilena assomiglia meno a quell’uomo squallido che a un certo punto, ex abrupto si intromette in una felice democrazia, ne elimina il capo e toglie la libertà per instaurare la più bieca delle dittature fino a che, dopo una strenua resistenza, il popolo lo caccia via, come un articolo di Dorfman tradotto in questi giorni dalla Repubblica lascerebbe immaginare.

In realtà le dittature non si costruiscono sul vuoto, e chi uccide le democrazie in realtà di solito fa poco oltre che seppellirne il cadavere. Più che prendersela con i dittatori, ci si dovrebbe chiedere chi ha creato le situazioni che gli hanno aperto le porte. Altrimenti la storia rimane l’incomprensibile ghiribizzo di qualche uomo che non sa stare al suo posto.

Prof. Emiliano Scappatura

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