Zero scuola, violenze e degrado, ma per le toghe: “Normale stile di vita dei rom”

baracca campo nomadi

In più occasioni i magistrati hanno rifiutato l’intervento: è la loro cultura, non vanno puniti

di Domenico Ferrara – Il bosco e il campo rom. Due luoghi differenti e molto distanti ma che nel caso della famiglia di Palmoli, in provincia di Chieti, si ritrovano vicinissimi perché fotografano perfettamente come la giustizia possa valutare in modo differente. C’è chi lo chiama doppiopesismo, chi normale interpretazione del magistrato giudicante. Epperò, al netto delle disquisizioni terminologiche, c’è un caso di cronaca che vale la pena rammentare per analizzare la vicenda da un’altra angolazione.

Periferia di Parma, anno 2011. La Procura dei minori chiede di affidare una bambina di 12 anni ai servizi sociali per darle una vita migliore in comunità rispetto al campo rom dalla “pessime condizioni igieniche” in cui vive, così come riscontrato dalla Polizia municipale. Lei va a scuola di rado e la famiglia ha problemi con la giustizia. Ma la Corte d’Appello risponde con un perentorio no: “Normale modo di vita”.

Sì, avete letto bene: la piccola anche senza scuola non è vittima di alcun “pregiudizio” e non subisce alcun nocumento. Poco importa se il procuratore dei minori abbia richiamato le norme a tutela dei diritti dei minorenni, dal codice penale fino alla convenzione di New York, per la Corte la piccola deve rimanere nel campo.

La condizione nomade e la stessa cultura di provenienza non induce a ritenere la sussistenza di elementi di pregiudizio per la minore“: questa la motivazione. E ancora: non vi è prova di “comportamenti dei genitori che non siano riferibili al normale modo di vita per condizione e per origine”. Il caso passò inosservato, senza polemiche di sorta. Quasi come se fosse normale vivere in determinate condizioni e rimanerci.

Ma non è l’unico episodio del genere. Per tornare ai tempi nostri, ha fatto discutere una decisione della Corte d’Appello di Torino. Anche in questo caso, i giudici hanno posto l’accento sul contesto e sulla cultura di appartenenza. E così, nel luglio 2024, una coppia di origine romena proveniente da un campo nomadi (lui di 54 e lei di 44 anni) è stata assolta dall’accusa di maltrattamenti nei confronti delle tre figlie. In sostanza, un paio di sculacciate e qualche ceffone non sono reato a patto che, come in questo caso, il “contesto” e le esperienze di vita spingano a credere che siano “l’unico strumento disponibile per garantire ordine e disciplina in famiglia”. Accettata la tesi della difesa, secondo cui è “l’abituale contesto violento” dei campi rom. Anche qui sembra valere il principio che siccome i rom non conoscono altri metodi educativi allora non ci sono margini di punibilità.

In base alle ultime statistiche, il numero di giovani che non studiano né lavorano provenienti da comunità rom e sinti è di gran lunga più alto rispetto alla media nazionale, di per sé già elevata. Eppure, le cronache difficilmente raccontano di casi in cui i giudici tolgono la patria potestà ai genitori per condizioni igienico-sanitarie preoccupanti, perché non ci sono le utenze relative a luce, acqua e gas o non siano presenti i servizi igienici. Che sono alcune delle motivazioni per cui i tre bambini sono stati tolti dai propri genitori e dal bosco.

Per non parlare del mancato rispetto dell’obbligo scolastico. Obbligo che per il caso della famiglia del bosco sarebbe invece stato rispettato dal momento che l’Istituto comprensivo competente pare abbia formalmente autorizzato i genitori ad avvalersi dell’home schooling per l’anno scolastico in corso, oltre ad aver ratificato l’idoneità della figlia maggiore.

E allora, qui non si tratta di stare da una parte o dall’altra ma di capire come sia possibile che un campo rom in condizioni di degrado, di illegalità e di violenza, con l’aggiunta della mancanza di rispetto delle regole scolastiche e non solo, non costituisca una motivazione per agire a tutela dei minori ma al contrario venga accettato e permesso.
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