Lettera al Presidente della Repubblica: l’Italia che Lei non vede più

signor Mattarella bis

di Carmen Tortora

Signor Presidente,
c’è un’Italia che non entra nei palazzi e non parla nelle conferenze. È l’Italia che si alza prima dell’alba, con il fiato corto e la sveglia nel petto, per aprire un bar, un negozio, una stalla. È l’Italia delle mani screpolate e delle tasche vuote, che non riceve inviti né onorificenze, ma tiene in piedi tutto il resto. È quella che non applaude ai discorsi ufficiali perché mentre Lei parla di “stabilità”, sta contando i centesimi davanti alla cassa del supermercato.

Fuori dalle sale dorate del potere, c’è una madre che spegne la luce prima di cena per non far salire la bolletta. C’è un padre che si finge sereno davanti ai figli, ma ha lo stomaco chiuso per l’ansia di non riuscire a pagare l’affitto. C’è un pensionato che vive con 700 euro al mese e guarda le medicine come un lusso. Ci sono giovani che non progettano più nulla: non un matrimonio, non un figlio, non una casa. Solo partenze.

Lei parla di “transizione ecologica”, ma questa transizione per molti è diventata un incubo. Gli agricoltori seppelliscono i raccolti perché le norme europee li puniscono se producono troppo. Gli allevatori chiudono le stalle perché non possono più sostenere i costi dell’energia. I pescatori guardano il mare, ma non possono uscire: le nuove regole lo vietano, in nome dell’ambiente. E intanto le multinazionali, quelle sì, continuano a trivellare, costruire, vendere e speculare – sempre col sorriso “verde” stampato sulla faccia.

Nelle città, la sera, le voci si fanno più basse. Nei quartieri popolari, la gente ha paura di uscire dopo il tramonto. Le donne stringono le chiavi tra le dita come se fossero un’arma. Gli anziani abbassano lo sguardo quando attraversano strade che una volta chiamavano “le loro”. L’immigrazione incontrollata non è più solidarietà, è disordine – un disordine pagato da chi già non ha nulla. E chi osa parlarne viene accusato di insensibilità, quando in realtà sta solo urlando per sopravvivere.

Lei cita spesso la parola “umanità”. Ma dov’è l’umanità, Signor Presidente, quando un commerciante si toglie la vita perché sommerso dalle tasse? Quando un padre di famiglia viene licenziato dopo vent’anni di lavoro? Quando una madre deve scegliere se riempire il frigorifero o comprare le scarpe al figlio? Dov’è l’umanità in un Paese dove tutto è diventato un modulo, un algoritmo, un codice fiscale?

Lei parla di “Europa” come di un faro. Ma per noi quel faro è diventato un riflettore accecante che illumina solo i piani alti e lascia il resto del Paese nell’ombra. L’Europa che doveva garantire prosperità e pace ha portato austerità e guerra. Ci avete detto che “difendevamo la libertà” mentre mandavamo miliardi a un conflitto che non ci appartiene. Centosettanta miliardi, Signor Presidente, sottratti a chi qui non riesce a pagare il mutuo. Non è difendere la libertà, è svendere la dignità.

L’Italia che Lei rappresenta si sta sbriciolando. Le botteghe chiudono, le fabbriche si spostano, i campi diventano distese abbandonate. I paesi si svuotano, i centri storici si trasformano in dormitori per turisti, le periferie in discariche umane. C’è un silenzio che non si misura nei sondaggi: è quello di chi non crede più a nulla. Non ai partiti, non ai governi, non all’Europa, e ormai nemmeno al Quirinale.

Lei appare in televisione con il volto pacato e il tono paterno. Ma mentre parla, fuori, l’Italia si consuma. Le persone non chiedono miracoli. Chiedono di essere viste. Chiedono che qualcuno dica, finalmente, che questo modello non funziona. Che l’uguaglianza promessa è diventata privilegio per pochi. Che la “stabilità” è solo l’immobilismo dei potenti, mentre tutto intorno crolla.

Cammini una volta, Signor Presidente, senza scorta, in un mercato di provincia. Guardi negli occhi chi sta dietro il banco: vedrà più verità in uno sguardo che in mille dossier. Vada in una scuola, in una di quelle dove piove dal soffitto, e chieda agli insegnanti come si sente a dover spiegare ai ragazzi che “il futuro è nelle loro mani” quando le loro mani tremano dalla paura. Si fermi un minuto davanti a un centro per l’impiego: guardi i volti di chi non ha più speranza. Non sono numeri. Sono cittadini, e Lei è il loro Presidente.

Il popolo italiano non si aspetta più promesse. Si aspetta dignità. Si aspetta che chi lo rappresenta smetta di difendere un sistema che lo opprime. Si aspetta parole semplici e vere: «Abbiamo sbagliato strada. Torniamo indietro».

Non servono più discorsi sulla pace se l’Italia è in guerra con sé stessa. Non serve parlare di “unità” se i cittadini si sentono soli. Non serve esaltare l’Europa se l’Europa non ci ascolta. Servirebbe solo un gesto umano, un atto di coraggio, un segno che qualcuno, lassù, si ricorda che la Repubblica non è fatta di leggi, ma di volti.

Lei ha il potere di farlo. Di restituire al Paese un senso, una direzione, una speranza. Di essere la voce dei deboli invece che l’eco dei forti.

Perché, Signor Presidente, l’Italia non chiede molto. Chiede solo di tornare a casa, e di ritrovare la luce. Ma quella luce non verrà dai palazzi. Verrà solo se chi li abita imparerà di nuovo a guardare verso il basso, dove la vita vera, quella che non si cita nei discorsi, non ha mai smesso di resistere.

Un’italiana qualunque, figlia di chi non ha più voce ma non ha ancora smesso di sperare
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