A Ginevra mostra-bufala delle torture nelle prigioni della Siria

 

Dopo le polemiche sulle immagini che mostravano gli orrori dell’isis, pare che il vento sia cambiato: ora gli orrori si possono mostrare, specie se addebitati alle forze di Assad.

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Sono foto choc quelle di un certo César, che si definisce fotografo della polizia siriana, il quale blatera da ben due anni di essere fuggito dal paese assieme a decine di migliaia di immagini. La lugubre collezione di torture nelle prigioni del regime, che secondo il fuggiasco sarebbe stata scattata in un ospedale militare, è stata esposta a Ginevra, mentre sono ripresi i difficili negoziati per mettere fine al conflitto.

Naturalmente, tranne le chiacchiere del fotografo, non vi è alcuna prova del luogo esatto in cui le foto sono state scattate perchè il fine è solo quello di mostare che Assad è un feroce dittatore, non di affermare con certezza una verità. I beoti poi non si faranno troppe domande e probabilmente la propaganda avrà il suo effetto.

Mazen Darwish, avvocato siriano ed ex prigioniero, spiega: “Penso che l’inviato speciale delle Nazioni Unite e i paesi che lo sostengono dovrebbero imporre al governo siriano di fornire delle liste ufficiali con i nomi dei prigionieri almeno fino a quando il governo afferma di essere uno Stato con sistemi giuridici”.

Parla poi una certa Hanada al-Refai, che si dichiara ex prigioniera: “Riguardo ogni foto nella speranza di vedere mio fratello. La sua foto forse non sarà là, ma era uno di loro. E’ morto torturato, lo hanno buttato per terra come gli altri. Hanno atteso di avere 60 o 100 cadaveri per metterli su un’unica fossa”.  (con fonte Afp)

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Ma perché mai la Polizia militare di Assad avrebbe dovuto trasportare in un ospedale militare i prigionieri, ammazzarli, fotografarli e realizzare così questa macabra collezione? Ce lo chiedevamo anche noi di Sibialiria (in un articolo di qualche tempo fa) per nulla soddisfatti della “spiegazione” riportata nel pomposo Report alla base delle dichiarazioni di “Caesar”:

<<La ragione per fotografare persone giustiziate (pagg. 6-7) era duplice: in primo luogo per permettere un certificato di morte da prodursi senza che le famiglie necessitassero di vedere il corpo, evitando così alle autorità di dover dare un resoconto veritiero della loro morte; in secondo luogo per documentare che gli ordini da eseguire erano stati effettuati.>> Ma per quale assurdo motivo – ci domandavamo – le autorità avrebbero dovuto esibire un certificato di morte (“per problemi cardiaci e attacchi respiratori”, pag. 13) alle famiglie degli oppositori che sarebbero scomparsi nelle carceri siriane? Per spingerle ad avere indietro il corpo del loro caro e constatare così i segni delle torture? E poi, quale regime conserverebbe una documentazione così dettagliata sui propri crimini? Da sempre, dai lager nazisti a Pinochet, gli oppositori scompaiono e basta. Desaparecidos, appunto. Altro che certificato di morte alle famiglie o immensi archivi fotografici a disposizione di qualche sadico satrapo di regime o di qualche inaffidabile fotografo della Polizia militare.

E poi, perché mai le fotografie mostrano le facce dei giustiziati celate da una fascetta nera sul viso che impedisce di riconoscerle? Il Report (pag. 19) ha la sua risposta. Sbalorditiva: <<Per motivi di sicurezza e privacy facce o altre caratteristiche potenzialmente identificativi nelle foto sono state rimosse.>> Motivi di sicurezza e di privacy? Per persone la cui identificazione avrebbe significato un inequivocabile atto di accusa per i carnefici? Per delle famiglie che certamente avrebbero diritto di conoscere la sorte toccata ai loro cari? Per i condannati stessi, che in questa rivelazione avrebbero potuto esternare la loro ultima testimonianza?

Queste e molte altre incongruenze (evidenziate nel nostro precedente articolo, ripreso da molti siti web e da qualche giornale) condannarono, nel 2013, questo “Scoop” (finanziato dal Qatar), almeno in Italia, ad una notorietà durata pochi giorni. Nonostante ciò, pochi mesi dopo, il nostro Ministero degli Esteri consacrava a questa bufala (presa per buona da uno sbalorditivo comunicato di Amnesty International) una costosa mostra al Palazzo di Vetro delle Nazioni Unite.

E ora la bufala di Caesar (che si credeva finita nel dimenticatoio dopo il sostanziale fallimento mediatico delle sedute del Congresso USA a questa dedicate) riprende quota costituendo una delle principali “prove” impugnate dalla Procura di Parigi nella sua grottesca “Inchiesta preliminare per crimini contro l’umanità” che, ovviamente, vede Assad sul banco degli accusati: uno smaccato supporto ai bombardamenti che Hollande ha pianificato per la Siria. Intanto l’Arabia Saudita (incredibilmente, messa alla presidenza della Commissione ONU per i diritti umani) annuncia il suo sanguinoso piano per “ripristinare la democrazia in Siria”, i “ribelli buoni” coccolati dall’Occidente e dalle Petromonarchie passano, armi e bagagli, nelle file dell’ISIS. E i “giornalisti” continuano a spacciare bufale.

Francesco Santoianni – – www.sibialiria.org

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