Buco di 1,8 miliardi di euro, nei guai Sorgenia e le sue rinnovabili

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5 dic – C’è un buco che minaccia le banche italiane di cui si dice poco o niente. Una voragine profonda come quella di Alitalia, Telco-Telecom o Tassara-Zaleski.

Si chiama Sorgenia ed è il gruppo energetico controllato dalla Cir della famiglia De Benedetti, che negli ultimi 10 anni ha accumulato debiti su debiti, fino a raggiungere la soglia da allarme rosso di 1,8 miliardi. E qui ha dovuto chiedere alle banche una moratoria e una ristrutturazione del debito. Il gruppo, fondato nel ’99 dall’Ingegnere in vista della liberalizzazione del settore, da un lato non riesce più a rispettare le scadenze; dall’altro dovrà far fronte nel 2014 e 2015 (tra linee «corporate» e «project») a rimborsi per oltre un miliardo.

Le banche tremano. Mentre la Cir chiede uno «sconto» sui debiti senza però voler metterci del suo. Il che, specie dopo il fresco ingresso nelle casse dei De Benedetti dei 350 milioni netti pagati da Fininvest per il Lodo Mondadori, sta irritando non poco le banche coinvolte nella faccenda. Tra queste, prima fra tutte c’è il Monte dei Paschi di Siena che, per non farsi mancare niente, è la maggiore sostenitrice creditizia del gruppo Sorgenia, leader di vari pool di finanziamento erogati negli anni della gestione di Giuseppe Mussari.

La banca guidata da Alessandro Profumo, interpellata, non ha voluto fornire alcuna indicazione per «policy aziendale». Ma secondo voci di mercato Mps dovrebbe essere esposta per circa 600 milioni (un ordine di grandezza pari a un quinto dell’aumento di capitale da 3 miliardi che la banca senese ha in cantiere). Intesa è la seconda più esposta seguita poi da Unicredit, Mediobanca, Banco Popolare, Ubi Banca, Bpm e in misura minore anche Carige, Bnl, Cariparma, Pop Etruria e qualche estera. Il debito è distribuito tra le diverse società del gruppo, ma essenzialmente sta in capo alla holding per 800 milioni, a Sorgenia Power (650 milioni) da cui dipendono tre delle quattro centrali elettriche e alla collegata (quindi non consolidata) Tirreno Power (800 milioni), una delle tre «Genco» cedute dall’Enel, di cui Sorgenia detiene il 39 per cento. La situazione è per di più appesantita dal fallimento di una delle banche creditrici, la tedesca Portigon (ex WestLb).

Nei soli primi 9 mesi di quest’anno Sorgenia ha annunciato una perdita di 434 milioni, in gran parte dovuta a svalutazioni. Il nuovo manager operativo, Andrea Mangoni, arrivato a luglio, deve ora negoziare con le banche, che gli hanno chiesto un piano industriale, in calendario per martedì prossimo, nel quale oltre a qualche dismissione ci sarà la richiesta al governo di sovvenzioni (il capacity payment). Ma il punto è che la società si trova in queste condizioni per un errore di fondo commesso dai De Benedetti: quello di investire miliardi nelle centrali a «ciclo combinato» (quelle che funzionano a gas) e di averlo fatto fino a pochi anni fa, quando il crollo della domanda da un lato, e la priorità nel dispacciamento delle energie rinnovabili dall’altro, hanno reso la tecnologia di Sorgenia marginale. Centrali programmate per lavorare 7-8mila ore l’anno si trovano a funzionare per 2.500. Per il resto stanno ferme, non producono ricavi, tanto meno margini, ma solo costi fissi (appesantiti dai famigerati contratti «take or pay») e di ammortamento degli investimenti effettuati. E Sorgenia, a differenza di altri produttori, ha poche o nulle possibilità di diversificazione.

Le banche si trovano quindi di fronte un mix di fattori tutti negativi: il peso del debito e la crisi del settore, a cui si aggiunge un azionariato frammentato: la Cir dei De Benedetti controlla il 52% delle attività Sorgenia con gli austriaci di Verbund al 48%; mentre in Tirreno Power Sorgenia ha il 39%, con il 50% dei francesi di Gdf. Per risolvere il rebus Sorgenia ha chiamato Lazard, che se ne occupa con l’ad Marco Samaja e il partner Igino Beverini. Anch’essi, interpellati, non hanno voluto fornire chiarimenti sulla situazione, a conferma della cintura di protezione che si sta stringendo intorno a una vicenda esplosiva. Gli scenari sono diversi e arrivano fino a quello, estremo, secondo il quale il socio Verbund sarebbe deciso a chiedere il concordato preventivo per fermare l’emorragia. Altri invece giurano che la questione sia il primo pensiero dell’Ingegnere. Deciso a non perderci un centesimo. Magari grazie a qualche operazione di «sistema» da organizzare nel 2014. Dopo la vittoria alle primarie del Pd di Matteo Renzi, il candidato sostenuto dalla «sua» Repubblica.

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