Il climatismo a colpi di trilioni: il Sud come mercato di riserva e il Nord come debitore colpevole

ONU green

4.000 miliardi l’anno sono il prezzo per trasformare miliardi di persone in consumatori a credito

di Carmen Tortora – L’ONU torna alla carica con l’ennesima liturgia salvifica: investite oggi, rassegnatevi oggi, cambiate stile di vita oggi… e forse, nel 2070, qualcuno incasserà 17 mila miliardi di euro di benefici. Non voi, ovviamente. Parliamo dei bilanci globali, delle curve macroeconomiche, dei grafici che fanno la felicità ai tecnocrati. È la promessa solenne del Global Environment Outlook 7: “Il futuro che scegliamoâ€. Il dettaglio che viene accuratamente nascosto è che a scegliere sono sempre gli stessi, e a pagare sempre gli altri.

Dietro questa liturgia green, però, scorre una cifra molto più concreta, molto più brutale: quattromila miliardi di dollari l’anno. È questa la soglia che ormai circola nei documenti sullo “sviluppo del Sud del mondoâ€, sulla transizione climatica globale, sulla necessità di rendere “compatibile†metà pianeta con la nuova fase dell’economia globale. Non per liberarlo, ma per rimetterlo in circolo come mercato. Perché il problema vero oggi non è la povertà del Sud, che è una condizione strutturale coltivata per decenni. Il problema è la saturazione del Nord.

Il Nord ha già consumato tutto: risorse, stabilità sociale, fiducia nel futuro, potere d’acquisto. Produce ancora, ma compra sempre meno. Il sistema non regge più senza una nuova platea di acquirenti. E allora il Sud, dopo essere stato spolpato, deve anche diventare cliente. A debito.

La narrazione climatica serve anche a questo. Se non vi adeguate subito, dicono, il PIL globale perderà il 4% l’anno, milioni moriranno, migrazioni di massa, Amazzonia al collasso, ghiacci che si sciolgono, carestie, sete, instabilità. Un’apocalisse scientificamente compaginata, da distribuire a rate sui prossimi decenni. In cambio, se accettate l’intero pacchetto di sacrifici, entro il 2050 si eviteranno nove milioni di morti premature, 200 milioni di persone usciranno dalla povertà e 300 milioni avranno accesso all’acqua potabile. Tutto ovviamente condizionale. Tutto proiettato nel futuro. Sempre dopo.

Ma è quando si guarda al Sud del mondo che la sceneggiatura mostra il suo vero scopo. Perché il Global South è contemporaneamente la vittima designata della catastrofe climatica e il cantiere operativo della transizione. Qui si concentrano le vulnerabilità: siccità, degrado dei suoli, agricoltura fragile, dipendenza dagli ecosistemi, sanità debole, urbanizzazione caotica. Ed è qui che il rapporto promette i maggiori benefici… domani. O magari tra due generazioni.

Il Sud globale viene raccontato come il luogo che più soffrirà se non cambia tutto, ma anche come la nuova frontiera della crescita verde: energia pulita, agricoltura sostenibile, economia circolare, ripristino degli ecosistemi, aree protette, diete corrette, controllo delle risorse. Traduzione reale: riconfigurazione forzata dei sistemi produttivi, energetici e alimentari dei Paesi più poveri, con costi immediati e benefici lontani nel tempo. E con un dettaglio che nei rapporti resta sempre in nota a piè di pagina: servono capitali, tecnologie, governance, istituzioni forti. Tutte cose che, guarda caso, il Sud del mondo non possiede in abbondanza.

Nel frattempo il conto viene presentato subito. Uscita dai combustibili fossili, decarbonizzazione accelerata, nuovi indicatori al posto del PIL, riforma dell’agricoltura, riduzione dei consumi, restrizioni materiali. I costi sono “rilevantiâ€, dicono con elegante understatement. I benefici arriveranno – forse – tra il 2050 e il 2070. È la versione climatica del “fidati, paga ora, poi vediamoâ€.

E intanto scorrono le cifre vere. UNICEF per il 2026 chiede 7,66 miliardi di dollari per garantire assistenza salvavita a 73 milioni di bambini: acqua, cibo, vaccinazioni, protezione. Sette miliardi. Spiccioli per la finanza globale, ma presentati come un Everest invalicabile. L’ONU, con l’appello umanitario complessivo, arriva a 23 miliardi per assistere 87 milioni di persone travolte da guerre, carestie e collassi statali. Anche questa una cifra che resta in gran parte sulla carta, perché la vita, evidentemente, non è una priorità contabile.

Poi arriva la grande messinscena climatica vera e propria. L’UNEP stima che solo per permettere ai Paesi in via di sviluppo di non essere spazzati via dagli effetti del cambiamento climatico servano tra i 310 e i 365 miliardi di dollari l’anno entro il 2035. Oggi ne circolano circa 26. Il resto è un buco sistemico che nessuno ha la minima intenzione di colmare seriamente. E questa dovrebbe essere l’emergenza del secolo.

Nel frattempo la transizione energetica viene venduta come nuova epopea salvifica. Gli investimenti globali nel settore energia superano i 3.000 miliardi l’anno, quelli nelle rinnovabili oscillano tra gli 800 e i 1.000 miliardi, la nuova capacità installata cresce a ritmi record. Ma quei soldi non vanno dove servirebbero per rendere autonomi i Paesi poveri. Vanno dove c’è già mercato, infrastrutture, stabilità finanziaria. Vanno nel Nord e in Cina. Il Sud, quello che avrebbe bisogno vitale di elettricità per acqua, sanità, agricoltura e industria di base, resta ai margini. L’energia cresce dove rende, non dove libera.

Ed è su questo sfondo che i 4.000 miliardi l’anno assumono il loro vero significato. Non sono fondi per costruire sovranità industriale o autonomia energetica. Sono il prezzo per trasformare miliardi di persone in consumatori a credito. Il Sud deve comprare tecnologia, energia, farmaci, infrastrutture digitali, pacchetti “greenâ€, sicurezza, dati. E con che soldi dovrebbe farlo? Con debito. Prestiti multilaterali, finanziamenti “agevolatiâ€, bond, programmi condizionati. Lo sviluppo viene costruito come una fabbrica di clienti indebitati, non come un percorso di emancipazione.

Il debito complessivo dei Paesi del Sud globale sfiora ormai i 9.000 miliardi di dollari. In molti Stati la spesa per interessi ha già superato quella per sanità e istruzione. Questa non è un’anomalia: è il modello. Ed è qui che arriva la parte più tossica della narrazione, quella del condono del debito come atto morale. Ciclicamente qualcuno propone di “cancellare†una parte del debito dei Paesi poveri. Lo presenta come gesto di generosità, come sacrificio dei contribuenti occidentali, come prova di altruismo. E intanto ai cittadini del Nord viene fatta passare l’idea che siano loro i veri colpevoli, che abbiano vissuto sopra le proprie possibilità, che ora debbano “pagare per il Sudâ€. Il ricatto è servito.

In realtà quei condoni, quando esistono, sono sempre parziali, condizionati, reversibili. Servono a far ripartire il ciclo, non a spezzarlo. Si cancella una quota per rendere il debito di nuovo sostenibile e quindi nuovamente esigibile. È manutenzione del sistema, non liberazione. E nel frattempo il cittadino occidentale viene messo alla gogna morale, mentre i veri beneficiari del debito – banche, fondi, grandi creditori, filiere finanziarie – restano rigorosamente fuori dall’inquadratura.

E mentre l’ONU mette in scena il suo grande appello etico, alla COP30 i petrostati hanno appena bloccato perfino una tabella di marcia per l’uscita dai fossili. Quindi la transizione, quella vera, resta appesa a una promessa che non riesce nemmeno a imporsi dentro i palazzi dove viene predicata. Ma intanto può essere imposta altrove, nei Paesi più ricattabili, più dipendenti, più indebitati.

La contraddizione diventa oscena quando si guardano le altre cifre. Per i bambini si elemosinano 7 miliardi. Per le emergenze umanitarie 23. Per il clima si promettono 310 miliardi che non arrivano mai. Per la guerra, invece, la spesa militare mondiale supera stabilmente i 2.700 miliardi di dollari l’anno. Qui i fondi non mancano mai. Qui non esistono gap, target mancati o versioni ridotte. La distruzione è sempre pienamente finanziata. La vita no.

Il rischio, che nei rapporti resta elegantemente sullo sfondo, è quello di un nuovo green colonialism: il Nord che detta standard, il Sud che esegue; il Nord che produce tecnologie, il Sud che fornisce territorio, risorse, manodopera “sostenibileâ€. Con l’aggiunta della solita retorica sulle conoscenze indigene, utili più come decorazione etica che come reale potere decisionale.

Il paradosso finale è questo. Prima il Sud è stato drenato per far crescere il Nord. Ora il Sud deve crescere per tenere in vita un Nord esausto, indebitato, strutturalmente fragile. Ma non si tratta di sviluppo. Si tratta di riconversione forzata a mercato, costruita sul debito, sulla dipendenza, sulla colpa. Il Sud viene trasformato in cliente. Il Nord viene trasformato in debitore colpevole. E il sistema resta intatto.

Il messaggio ufficiale resta sempre lo stesso: “Davanti all’umanità ci sono due futuri. Scegliamo quello giusto.†Ma nella pratica il futuro viene scelto nei centri finanziari, negli apparati tecnocratici, nelle sedi delle agenzie internazionali. Al Sud del mondo viene riservata la parte del paziente da rieducare, del sistema da riconvertire, del territorio da ottimizzare. Sempre in nome di un bene superiore che arriverà tra quarant’anni.

E così il clima diventa la nuova grande narrazione disciplinare globale: si governa attraverso il futuro, si giustificano sacrifici nel presente, si promettono benefici in un tempo in cui nessuno potrà più presentare il conto delle promesse mancate.

Conclusione

I 4.000 miliardi l’anno non sono la promessa di un mondo più giusto. Sono il costo che il sistema deve sostenere per non collassare per mancanza di acquirenti. Dopo aver spolpato il Sud per nutrire il Nord, ora tentano l’operazione inversa: trasformare il Sud in mercato per mantenere in vita un Nord esausto, mentre ai cittadini viene chiesto di sentirsi anche colpevoli. Non è solidarietà. È ricatto morale. E se questa operazione fallirà, perché il debito diventerà ingestibile e le società non reggeranno l’urto, resterà una verità semplice, brutale: il mondo non è stato solo sfruttato. È stato consumato due volte.

Fonte: https://www.unep.org/geo/global-environment-outlook-7

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