Oro e sovranità: l’Europa che si riarma mentre tenta di mettere l’Italia in ginocchio

lingotti d'oro

Oro, sovranità e nervi scoperti: l’Europa che si riarma mentre tenta di mettere l’Italia in ginocchio

di Carmen Tortora – Negli ultimi mesi è tornato alla ribalta un tema che sembrava archiviato: la proprietà e la gestione delle riserve auree detenute dalla Banca d’Italia. Un emendamento alla legge di bilancio 2026, promosso da Fratelli d’Italia, ha avuto l’ardire di mettere nero su bianco che l’oro custodito da Via Nazionale «appartiene al popolo italiano». Nella versione iniziale il testo era ancora più chiaro: le riserve auree «appartengono allo Stato, per conto del popolo italiano». È bastata questa frase, apparentemente innocua, per far scattare tutti gli allarmi a Francoforte. Christine Lagarde è intervenuta subito, rispondendo a un’interrogazione dell’eurodeputato Tridico con un richiamo che suona come una lezione di sovranità rovesciata: «Non si tratta di una questione banale, perché l’Italia è il terzo maggiore detentore di oro tra le banche centrali. Il Trattato stabilisce in modo molto chiaro che la detenzione e la gestione delle riserve spettano alla banca centrale nazionale di ciascuno Stato membro, e la Banca d’Italia non è diversa da qualsiasi altra banca centrale nazionale… Perciò la Banca d’Italia ha il dovere di detenere e gestire tali riserve». (ANSA.it)

Tradotto in linguaggio non tecnico: l’oro potete guardarlo, lucidarlo, contarne i lingotti nelle visite guidate, ma il potere di decidere se, come e quando usarlo è blindato dentro l’architettura dei Trattati. Il giorno prima, la BCE aveva già mandato al MEF un parere formale in cui contestava l’emendamento perché «privo di finalità chiare» e invitava il governo a «riconsiderarlo» per non compromettere l’esercizio indipendente delle funzioni di Banca d’Italia. (euronews)

La formula è felpata, ma il messaggio è brutale: non toccate l’oro, non toccate la banca centrale, non trasformate un bene di garanzia del sistema in un “tesoretto†politico da agitare in Parlamento. Risultato: l’emendamento viene annacquato; sparisce il riferimento esplicito allo Stato, resta la formula soft secondo cui le riserve «appartengono al popolo italiano», che non sposta un grammo di competenza giuridica ma salva la faccia alla maggioranza. Intanto Lagarde ribadisce che la gestione delle riserve spetta esclusivamente alla banca centrale nazionale, e che ogni deviazione aprirebbe un conflitto con i Trattati e con la “fiducia dei mercatiâ€. (euronews)

Dentro questo braccio di ferro si infila la voce, ormai di lungo corso, di Claudio Borghi, che da anni denuncia l’“anomalia italianaâ€: in nessun altro grande Paese europeo l’oro viene formalmente descritto come proprietà della banca centrale; la Bundesbank, la Banque de France, la De Nederlandsche Bank e via discorrendo dichiarano di gestire oro dello Stato, non oro “proprioâ€. La situazione italiana, secondo Borghi, esplode con la riforma del 2014 sulle quote di Bankitalia, che sposta gli equilibri patrimoniali e alimenta l’idea che le riserve siano “della bancaâ€. Nelle sue dichiarazioni pubbliche insiste sempre sulla stessa linea: l’oro è patrimonio della Repubblica, non di un ente “tecnicamente indipendenteâ€Â che risponde più volentieri a Francoforte che a Montecitorio. In altre parole, Borghi tenta di ripoliticizzare un asset che l’eurocrazia considera sacro proprio perché sottratto alla politica. Su questo punto, paradossalmente, sia lui sia Lagarde dicono la verità, ma ciascuno su un piano diverso: per il politico l’oro è un’ancora materiale di sovranità nazionale; per la banchiera è il collaterale ultimo dell’architettura euro, e guai a lasciarlo entrare nel circuito degli appetiti parlamentari.

Per capire perché il tema esploda proprio adesso bisogna uscire dai confini italiani e guardare la mappa europea. Da oltre un decennio le principali banche centrali del continente hanno iniziato a riportare “a casaâ€Â una parte consistente delle riserve custodite oltreoceano. La Germania ha avviato il suo piano nel 2013: trasferire 300 tonnellate d’oro da New York e 374 da Parigi verso i caveau di Francoforte, in modo che almeno metà delle riserve fosse fisicamente sul suolo tedesco entro il 2020. Nel 2017 la Bundesbank annuncia trionfante di aver completato il piano con tre anni di anticipo: 674 tonnellate trasferite, Parigi azzerata come deposito tedesco, e il 50,6% dell’oro nazionale finalmente sotto i propri piedi.(Bundesbank)

Nel 2014 i Paesi Bassi fanno la stessa mossa, ma in silenzio: la De Nederlandsche Bank repatria 122,5 tonnellate da New York ad Amsterdam, portando la quota domestica al 31% e spiegando che così «si rafforza la fiducia del pubblico» e si ottiene una distribuzione più equilibrata tra le varie sedi. (BullionStar Singapore)

L’Ungheria non si limita a riportare a casa l’oro: nel 2018 il Magyar Nemzeti Bank rimpatria le riserve custodite a Londra, le moltiplica per dieci – da 3,1 a 31,5 tonnellate – e poi continua ad acquistare fino ad arrivare a circa 110 tonnellate nel 2024, dichiarando apertamente che si tratta di una scelta per rafforzare sovranità e stabilità in tempi incerti. (LBMA)

La Polonia, dal canto suo, orchestra tra il 2019 e il 2020 un’operazione da film: otto voli cargo da Londra, ognuno con mille lingotti, per rimpatriare 100 tonnellate di oro dalla Bank of England ai caveau della Narodowy Bank Polski, dopo averne acquistate altrettante sul mercato. ( Scribd)

Non si tratta di qualche gesto folkloristico: è un riassetto strutturale. Le stesse analisi di settore notano che, tra 2015 e 2024, le banche centrali hanno comprato oro come non accadeva dai tempi della Guerra fredda, portando gli acquisti ufficiali a oltre 1.000 tonnellate l’anno, e aumentando sistematicamente la quota custodita “on-shoreâ€Â nei propri Paesi, proprio per proteggerla dal rischio di sanzioni o congelamenti. (The NewsMarket)

Nel frattempo la Romania, nel 2019, tenta un colpo ancora più audace: una legge che obbliga la banca centrale a riportare in patria oltre il 90% dell’oro custodito all’estero, soprattutto a Londra. La mossa viene stoppata dal presidente e finisce nel mirino della BCE, che contesta il tentativo di interferenza politica sulla gestione delle riserve, ma il segnale è chiaro: nell’Europa orientale l’oro deve stare sotto il pavimento di casa, non nei caveau anglosassoni.  (SIPRI)

Mentre i lingotti tornano nei caveau nazionali, l’altra metà dello scenario si gioca sul terreno del riarmo. Dal 2014 – anno dell’annessione russa della Crimea – la spesa militare europea comincia a salire, ma è dal 2022 in poi che parte la vera impennata. I dati SIPRI mostrano che nel 2022 la spesa militare mondiale tocca un massimo storico di 2240 miliardi di dollari, con l’Europa che registra l’aumento più forte degli ultimi trent’anni. (SIPRI)

Nel 2023 si sale ancora: 2.443 miliardi, +6,8% in un anno, con incrementi particolarmente consistenti proprio in Europa e in Medio Oriente. (SIPRI)

Nel 2024 l’asticella viene di nuovo superata: secondo gli ultimi dati, la spesa militare globale raggiunge i 2.718 miliardi, +9,4%, il balzo annuo più ripido dall’inizio delle serie nel 1988, e la crescita è trainata soprattutto dall’Europa e dall’area mediorientale. (SIPRI) Un’analisi di Euronews, basata ancora sui numeri SIPRI, nota che nel 2024 tutti gli Stati europei tranne Malta hanno aumentato la spesa militare, con la Polonia arrivata al 4,2% del PIL e la Germania a livelli record (quasi 78 miliardi di euro). (euronews)

Nel frattempo l’Agenzia europea per la difesa certifica che, nel 2024, i 27 hanno speso 343 miliardi in difesa (+19% rispetto al 2023), toccando l’1,9% del PIL e con investimenti militari oltre i 100 miliardi per la prima volta. (Default)

In altre parole, mentre i lingotti tornano a casa, i cannoni si moltiplicano. E non è solo un riflesso “emozionale†alla guerra in Ucraina: è una scelta di sistema, formalizzata dalla nuova strategia industriale per la difesa dell’UE e dalle pressioni NATO per fissare il 2% del PIL come minimo – e non più come obiettivo lontano e facoltativo.

Sul fronte finanziario, intanto, le crepe si allargano. Gli interessi sono esplosi dopo un decennio di tassi zero, il debito pubblico e privato resta ai massimi storici, la crescita è anemica. Il Fondo Monetario Internazionale, nel Global Financial Stability Report del 2024, avverte che un regime di tassi “higher for longerâ€Â sta erodendo lentamente la tenuta del sistema: molte economie avanzate portano sulle spalle montagne di debito contratto a costo zero, che ora si rifinanzia a costi molto più alti, con il rischio di una nuova ondata di stress finanziario nei prossimi anni. (World Gold Council)

La Banca dei Regolamenti Internazionali, nel suo Annual Economic Report 2024, parla apertamente di “cash-flow crunchâ€: l’aumento degli oneri di servizio sul debito potrebbe innescare episodi di tensione acuta nei mercati, soprattutto se la crescita dovesse rallentare ancora. (World Gold Council)

La Banca dei Regolamenti Internazionali, nel suo Annual Economic Report 2024, parla apertamente di “cash-flow crunchâ€: l’aumento degli oneri di servizio sul debito potrebbe innescare episodi di tensione acuta nei mercati, soprattutto se la crescita dovesse rallentare ancora. (CNBC)

La Banca Mondiale, nei Global Economic Prospects del 2024-2025, avverte che l’economia globale si muove su un sentiero di “crescita lenta e rischi elevatiâ€, con una quota crescente di Paesi già in difficoltà di rifinanziamento e un margine di manovra fiscale praticamente esaurito. (World Gold Council)

entro l’UE, l’ESRB – l’organo che monitora i rischi sistemici – segnala vulnerabilità crescenti nel settore immobiliare, nei fondi di investimento a leva e nel sistema bancario ombra, proprio a causa dell’onda lunga dei tassi alti. (World Gold Council) Tradotto: se c’è una finestra temporale critica in cui la prossima crisi può materializzarsi, è proprio il biennio 2025–2026, quando i rifinanziamenti di massa del debito incontreranno tassi elevati, bilanci statali drenati dal riarmo e un’economia che non corre. Non a caso, una parte della finanza “fuori dai riflettori†parla già di “prossima Lehman in arrivo entro la metà del decennioâ€: non necessariamente lo stesso copione, ma lo stesso meccanismo di fondo, cioè un sistema che si è illuso di poter convivere all’infinito con indebitamento infinito e costo del denaro nullo.

In mezzo, come una voragine, c’è il buco nero ucraino. Dopo tre anni di guerra, il mito della “vittoria totale di Kiev†si è sgonfiato; sul campo, Mosca ha consolidato il controllo di vaste aree e Ucraina e Russia si fronteggiano in un logorante braccio di ferro in cui la parte ucraina sopravvive solo grazie al flusso di armi e denaro occidentale. Le stime congiunte Banca Mondiale-ONU-Commissione europea sui costi di ricostruzione parlano già di oltre 486 miliardi di dollari necessari nell’arco di dieci anni, cifra destinata a crescere mano a mano che il conflitto si prolunga. (Banca Mondiale)

Nel frattempo, i fondi per l’emergenza cominciano a scarseggiare: a fine 2024 e inizio 2025 diversi articoli hanno raccontato la corsa disperata dei leader europei per tappare il buco nel bilancio dell’UE e garantire il pacchetto da 50 miliardi del cosiddetto “Ukraine Facilityâ€, mentre a Kiev le casse si svuotavano e il Tesoro rischiava la paralisi. (Il Guardian)

La verità che nessuno può dire apertamente è semplice: l’Europa non ha la capacità né politica né finanziaria di sostenere a tempo indeterminato un Paese allo stremo, con un’economia dimezzata, una demografia in caduta libera e una macchina bellica che brucia miliardi ogni mese. Il “progetto Ucraina†come avamposto armato contro la Russia si sta rivelando un pozzo senza fondo. Ma arretrare significherebbe ammettere il fallimento di tutta la narrativa degli ultimi anni. E allora si finge, si rinvia, si parla di “sostegno a lungo termineâ€Â sapendo che a un certo punto qualcuno resterà senza sedia quando la musica si fermerà.

In questo quadro, non è difficile intuire perché le élite europee tengano così tanto a mantenere il controllo tecnico sulle riserve auree, proprio mentre lasciano filtrare l’idea di nuovo riarmo permanente e di un’Unione che si gioca la propria sopravvivenza sulla capacità di farsi potenza militare credibile. L’oro, in questo contesto, è la cinghia di trasmissione nascosta tra tre livelli: la fiducia dei mercati nel debito sovrano, la tenuta dell’euro come moneta e la capacità dell’UE di finanziarsi per sostenere, contemporaneamente, guerra per procura, difesa comune e transizione verde. Non stupisce che, in parallelo ai rimpatri nazionali, Bruxelles lavori ossessivamente su nuovi “strumenti di stabilitàâ€: dal MES – rimasto nel cassetto ma sempre pronto a essere tirato fuori come salvadanaio condizionale – alle proposte di nuove risorse proprie europee, fino ai discorsi, mai troppo espliciti, sulle riserve auree come “garanzia ultimaâ€Â del sistema. La logica di fondo è sempre la stessa: socializzare i rischi e centralizzare il controllo. Ti dicono che l’oro è “apoliticoâ€, ma quando un Parlamento prova anche solo a scrivere che appartiene al proprio popolo, scattano le sirene della tecnocrazia.

Se mettiamo in fila tutti i pezzi, il disegno non è difficile da intravedere. Dopo la lezione Lehman – la scoperta traumatica che anche il cuore luccicante di Wall Street può collassare in pochi giorni – il mondo ha ricominciato a guardare all’oro come all’unica assicurazione reale contro il default sistemico: non è passività di nessuno, non dipende dalla solvibilità di un debitore, non si cancella con un click. Paesi come Germania, Olanda, Polonia, Ungheria, Romania hanno tratto una conseguenza precisa: che sia pure dentro il recinto dell’euro o fuori, una quota crescente di lingotti va riportata a casa, lontano dal raggio d’azione di eventuali “congelamentiâ€Â decisi a Washington o a Londra contro il cattivo di turno. L’UE, dal canto suo, ha tratto un’altra conclusione: se le banche centrali nazionali si rafforzano patrimonialmente, se i governi cominciano a rivendicare che quell’oro è “del popoloâ€, il fragile equilibrio su cui poggia l’euro – una moneta senza Stato, garantita da banche centrali “indipendenti†– rischia di saltare. Da qui la furia con cui Lagarde difende il monopolio tecnico sulla gestione delle riserve: non è solo burocrazia, è autodifesa del sistema.

Nel frattempo, il continente si riempie di armi, l’Ucraina brucia risorse, i bilanci pubblici si gonfiano di spese militari e interessi sul debito, e i grandi organismi internazionali avvertono che la prossima crisi potrebbe essere dietro l’angolo, proprio quando i margini per reagire saranno minimi. In questo contesto, la battaglia italiana sull’oro non è un capriccio né una bandierina propagandistica: è un sintomo. Dice che perfino dentro uno dei Paesi più disciplinati dell’eurozona sta maturando la percezione che lasciare ogni leva reale – lingotti compresi – in mano a un’oligarchia tecnocratica sia diventato troppo rischioso. Dall’altra parte, la reazione furibonda della BCE segnala che chi governa l’Unione si sente abbastanza fragile da non poter tollerare neppure un inciso in una legge di bilancio. Mentre gli altri accumulano oro in patria e si riarmano, l’Europa costruisce una “fortezzaâ€Â che ha bisogno di due cose per non crollare: soldi e controllo. I soldi sembrano sempre meno, il controllo non basta mai. In mezzo ci siamo noi, con i lingotti chiusi nel caveau, le fatture dell’energia e delle armi da pagare, e una classe dirigente che ci spiega, con tono paternalistico, che l’oro è nostro, sì, ma solo finché non ci sogniamo di usarlo.

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