Una vera e propria presunzione geopolitica sembra aver preso in ostaggio le intelligenze di un’Europa che, nel mondo, poteva fare la differenza
di Giuseppe Romeo – Non ci sono dubbi che il mondo, almeno quella parte che credeva ancora di contare qualcosa, ovvero quello dell’Occidente europeo a declinazione ebraica ed economicamente definitosi nelle prospettive neoliberali e neoliberiste di derivazione anglosassone stia oggi soffrendo nel dubbio di come e in che termini, o a quali costi, dovrà pagare il prezzo di un allargamento dei fronti caldi di ieri. Fronti, alcuni provocati altri riconducibili a politiche, e ambizioni di potenza mai sopite o risultato di una vera e propria presunzione geopolitica che sembra aver preso in ostaggio le intelligenze di un’Europa che, nel mondo, poteva fare la differenza.
E non si tratta solo della crisi russo-ucraina, nata e maturata nell’alveo di un atlantismo piegato agli interessi della potenza d’oltreoceano, ma di come e in che misura si manifesti la scelta di accettare un doppio standard nella spinta in avanti della politica ossessivo-compulsiva di Netanyahu. Un leader, quest’ultimo, che nella comprensibile reazione iniziale all’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023, ha poi sconfinato nella stessa crudeltà del suo avversario dimostrando di accettare e replicare con le stesse regole di condotta.
Uno spostamento in avanti della linea del fronte riportata all’interno della disperazione di Gaza e che, nell’insostenibilità delle scelte e dei risultati militari sulla popolazione civile, oggi somma l’attacco all’Iran ponendolo sotto la presunzione giuridica della minaccia esistenziale che una proliferazione della minaccia nucleare da parte di Teheran potrebbe rappresentare per lo Stato di Israele. Con questo, affidandosi alla legittimità presunta dell’attacco preventivo ormai collaudato dagli Stati Uniti ma non concesso, con pari giustificazione, alla Russia.
Un attacco preventivo, all’Iran che non solo azzera ogni significato al Trattato di Non Proliferazione, firmato anche da Teheran ma, anzi, nel rendere efficaci le previsioni dell’art.10 – che consentono il ritiro dagli accordi di tutela e garanzia nel senso nel caso in cui uno Stato dichiara che eventi straordinari hanno messo in pericolo i suoi supremi interessi – ne determina una risoluzione de plano di ogni efficacia. Netanyahu, nella sua brillante visione politica e militare non solo ha allontanato ogni minima possibilità di ricondurre all’interno di un negoziato almeno una sospensione delle attività militari su Gaza ma, ritenendo che la sopravvivenza di Israele possa anche costare il sacrificio della sopravvivenza di altre comunità, ha messo in pericolo non solo il Medio Oriente ma l’Europa intera.
E non solo perché è riuscito a consolidare quanto in millenni di storia non si era visto; ovvero l’avvicinarsi tra sciismo e sunnismo in una sorta di mortale solidarietà messa in campo contro uno Stato aggressore, e come tale Israele riconosciuto anche dall’Arabia Saudita e da buona parte della comunità internazionale. Ma perché Tel Aviv ha di fatto dimostrato come e in che misura il diritto internazionale non abbia un suo ruolo e che la sua interpretazione possa definire liberamente – cioè strumentalmente – ambiti di legittimità unilaterale a prescindere dai possibili danni collaterali pagati da terzi.
Insomma, se di minaccia si trattava per Israele a seguito del Rapporto dell’Aiea, la strada era quella di portare le sue riserve all’attenzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite facendo legittimare in termini giuridicamente, e politicamente incontrovertibili, qualunque possibile azione contro l’Iran.
Ma ciò sarebbe stato imbarazzante dal momento che già la sovraesposizione su Gaza ha reso Netanyahu poco credibile. Ma non solo.
Non vi sono dubbi che la trasformazione di Netanyahu in un leader da guerra lo pone come colui che sente la responsabilità di rispondere a una minaccia ritenuta possibile e considerata esistenziale per la sopravvivenza dello stesso Stato ebraico. Ciò significa, che qualunque sacrificio è ammesso e che combattere per una nuova Megiddo, questa volta alle porte dell’Armageddon, una nuova ed eterna guerra sia l’unico modo per difendere la sua personale sopravvivenza quale leader inadeguato per il futuro dello Stato ebraico quanto per la pace in Medio Oriente.
Il nuovo Gedeone biblico, nel tentativo di salvare se stesso in nome di un Dio che sembra preferire ancora oggi solo una parte della sua creazione umana, non lesina di mettere a repentaglio la stessa sopravvivenza dello Stato ebraico. Un sacrificio probabilmente possibile per Netanyahu cui si riconosce quel Aprés moi la deluge di un Luigi XV nel dimostrare tutta la debolezza della sua leadership e portando alla luce del sole la vera volontà degli ultraconservatori al governo che non hanno mai sostenuto, facendo di tutto per farlo fallire, quel processo di pace che sembrava il dono di un Dio della pace. Un Dio, oggi sostituito da un Dio della guerra nel quale si riconoscono gli avversari di ieri.
Lo stesso disinteresse per la vita umana dimostrato nelle operazioni condotte a Gaza, quanto il nichilismo che sembra contrassegnare la visione cinica del leader israeliano, non sembrano dare peso alle conseguenze delle scelte. Tutto questo, per un egoismo politico sostenuto da una strumentale interpretazione della storia dei popoli e della loro religione, mettendo da parte e, se necessario, sacrificando il futuro delle stesse nuove generazioni in Israele.
D’altra parte, anche il triste teatrino messo in campo da un Trump che gioca a fare di se stesso un Theodore Roosevelt dei nostri giorni senza averne un minimo di stoffa lo porta ad interpretare ruolo e funzioni di colui che, nell’ambiguità della sua scarsa profondità di visione, nell’accendere fuochi verso il proprio orizzonte poi cerca di farli spegnere a altri minacciando di alzare un tiro che non garantirebbe alcuna soluzione definita, ma una replica progressiva di situazioni di caos dove la futura violenza estremistica troverà terreno fertile.
Ecco, allora, che di fronte a un’Europa che ha rinunciato ad assumere una posizione da protagonista nel Mediterraneo e in Medio Oriente – e che si lecca le ferite di una lesione profonda in Ucraina autoprocuratasi quale risultato ottenuto dall’aver voluto rinunciare a credere in una possibile Russia europea e prossimo-atlantica – si raccolgono nelle nostre prossimità i frutti dell’incapacità di previsione. Frutti dell’approssimazione e della presunzione di una centralità e credibilità persa ormai da tempo da un’Europa pavida e faziosa.
Al netto di come andranno le vicende tra Israele e Iran, di fatto Tel Aviv scegliendo di spostare e portare lo scontro anche sul terreno del regime degli ayatollah, non contento di aver creato terreno nuovamente fertile tra i sopravvissuti di Gaza per nuove generazioni di terroristi, oggi attribuisce proprio al regime che andrebbe combattuto sul piano della democrazia – e con strumenti che legittimino la superiorità della civiltà del diritto – quell’essere il paladino della resistenza islamica di matrice sciita. Ovvero, di sentirsi l’unico dominus di un nuovo radicalismo pronto ad attaccare il diavolo occidentale trasformandosi, il radicalismo sunnito-sciita, da strumento perfettibile per una guerra asimmetrica in una minaccia decisiva in un confronto ibrido solo in apparenza, ma non nei risultati.
Prof. Giuseppe Romeo – https://giusepperomeo.eu