Covid e “ordini superiori”, la testimonianza

ambulanza covid

(da https://www.bellunopress.it) –  Sono gli ordini non ufficiali (non pubblicati, non firmati o segreti) largamente noti ma dichiarati solo confidenzialmente, che provengono “dall’alto” e attraverso una stretta catena arrivano a vassalli, valvassori, valvassini e servi della gleba.
Sono la causa di situazioni spesso illogiche e incomprensibili, talora tragiche e alla base di delitti di cui non si troverà mai il colpevole. Colpevoli che sono noti ma dei quali la stampa ufficiale e allineata non parla mai in modo chiaro.

Tutti noi, che ci ritroviamo “in basso”, ne abbiamo una qualche esperienza. In questi ultimi 3 anni non si sono contati e hanno consentito la creazione di un castello di argilla che prima o poi crollerà.
Un esempio illuminante sono le indagini diagnostiche per la positività al virus. Mi riferisco a quelle “molecolari” che si basano sulla PCR e quindi su cicli di amplificazione del materiale genetico per l’identificazione del virus e quindi della positività alla infezione. Già Kari Mullis, inventore del metodo e poi Drosten, il virologo di Berlino incaricato per la diagnostica della Sars-CoV-2, hanno dichiarato che oltre i 30/40 cicli di amplificazione i test non hanno alcuna affidabilità, con prevalenza di risultati positivi. Lo stesso Drosten ne usa 45 ma dichiara che i risultati sono casuali. Non parliamo dei tamponi rapidi!

Perché allora usare test del tutto inaffidabili? La risposta che comincia a diffondersi (escludendo gli aspetti economici che comunque riguardano guadagni a 9 zeri) è molto logica: perché sono utili alla gestione di una pandemia che deve essere grave, altrimenti non si vendono i vaccini! E sicuramente era un “ordine superiore”, non certo ufficiale e firmato, quello che ha semplicemente deciso di ignorare il problema.

Se si chiedono spiegazioni agli organi “superiori” normalmente non c’è risposta, a dimostrazione del fatto che la domanda è molto valida ma molto scomoda.

La lettera che segue mi è stata recapitata in questi giorni. Si tratta di una storia di vita vissuta e di ordinaria angoscia, che nel nostro mondo attuale è emblematica di una situazione spesso sopportata in silenzio. La lettera è firmata e documentata. Ho chiesto di togliere i nomi.

Filiberto Dal Molin

“Una tosse stizzosa accompagna le mie giornate lavorative da circa un mese. Tra la sera e l’indomani si scatena su di me l’inferno: fortissimi dolori su tutto il corpo, mal di testa pazzesco e febbre a 39°C. Il giorno dopo anche mio marito accusa gli stessi sintomi, così decido di chiamare il 118 per ricevere soccorso.

L’operatore del 118, purtroppo, mi risponde: mi dispiace signora, ma non posso inviarle nessun medico a visitarla. Io: come? Perché? L’operatore: per ordini dall’alto. Io: ma sta scherzando ? Mi passi un medico per favore. Spiego al medico la mia situazione e la risposta dell’operatore; il medico conferma che quanto detto dall’operatore è vero, che per ordini dall’alto gli è stato proibito di uscire a visitare i pazienti.

Mi sento angosciata e non so cosa fare. Tre giorni dopo mio marito mi dice che fatica a respirare, in quel momento sento un brivido di paura attraversarmi il corpo, capisco di dover telefonare nuovamente al 118. Risponde un’operatrice, che mi dice di stare tranquilla e mi invia un’ambulanza. Arriva l’ambulanza con due infermieri, uno si occupa del marito, l’altro si rivolge a me e, vedendo le mie condizioni, si ostina perché vada anch’io al pronto soccorso. Fatti gli accertamenti, da lì a poco arriva la diagnosi, mio marito broncopolmonite ed io polmonite interstiziale, veniamo ricoverati. Durante la notte ci fanno un tampone rinofaringeo e mi dicono che abbiamo preso la Covid-19.

Il giorno dopo, vedendo tutto il personale entrare bardato dalla testa ai piedi, inizio ad avere paura, paura non di morire, ma di non vedere più le mie figlie e scoppio a piangere. Sono preoccupata e angosciata anche per mio marito…nessuno mi dice cos’ho…Arrivano i dubbi e la paura aumenta; oltre a non sapere che malattia ho contratto, il panico mi assale, registro un audio per le figlie per salutarle prima che arrivi il peggio…

Dopo qualche giorno di ricovero, iniziano a darmi l’ossigeno e cure che cominciano fortunatamente a fare effetto. A distanza di due settimane dal ricovero sto meglio. Vengo dimessa assieme a mio marito. Continuo le cure a casa e dopo 5/6 mesi torno a lavorare. Rientrata al lavoro mi rendo conto che la situazione in reparto è completamente stravolta a causa dell’introduzione delle norme anti Covid-19. Muoiono tante persone, il Ministero della Salute proclama lo stato di pandemia per Covid-19 con norme igieniche da tenere sul posto di lavoro, tamponi nasali ogni 20 giorni, grazie ai quali mi provocano lesioni alle narici, uso di guanti, mascherine e distanziamento fino ad arrivare al lockdown. Il 1° aprile viene emanata l’entrata in vigore dell’obbligo vaccinale per il personale sanitario e per gli inadempienti e imposta la pena della sospensione dal lavoro con perdita della retribuzione. Visto il mio stato di salute mi reco dal mio medico di famiglia per farmi prescrivere l’esenzione da questo vaccino, ma egli si rifiuta.

Mi reco da un altro medico di base che, spiegata la mia situazione, non esita a farmi l’esenzione alla vaccinazione. Accidentalmente rimango bloccata con la schiena. Quando i giorni di malattia stanno per finire, mi tormenta il pensiero di rientrare al lavoro con tutto quello che leggo e sento che sta accadendo ai colleghi non vaccinati, così faccio scrivere al mio avvocato una lettera accompagnatoria prima del mio rientro al lavoro. Rientro al lavoro dopo due mesi, previa visita del medico aziendale, che ritiene valide le esenzioni ottenute per i tamponi nasali e per il vaccino anti Covid-19. Al lavoro, vengo presa in disparte dal collega medico il quale mi ricorda che lì non posso stare, perché non essendo vaccinata sono un pericolo per la salute dei pazienti e mi invita a prendere posto provvisoriamente in una delle stanze vuote del reparto finché decidono la mia collocazione lavorativa. In quella stanza isolata dal resto del reparto e dai colleghi ci rimango fino al 31 marzo 2022, data di scadenza del mio certificato di esenzione alla vaccinazione.

Ricordo che sono persino stata accusata di essere una guerrafondaia come Putin per aver osato tutelare il mio rientro al lavoro con la lettera dell’avvocato. A fine marzo, vengo informata che il certificato digitale non sarà più prorogato se non porto sufficiente documentazione davanti alla Commissione preposta dell’ASL, che giustifichi la mia esenzione.  La prima esenzione digitale del mese di marzo la emette un medico dello Spisal, in quanto il mio medico di base si rifiuta nuovamente, perché non sicuro che io abbia diritto all’esenzione e perché non vuole assumersi questa responsabilità per paura di finire in mezzo ai guai; in pratica mi risponde: arrangiati e non chiedermelo più o chiamo i carabinieri. Al lavoro mi viene proibito di uscire da quella stanza anche per prendere una bottiglia d’acqua o riscaldare il cibo, posso uscire solo per andare in bagno che fortunatamente sta ad un metro dalla mia postazione.

In quella stanza, sola e isolata da tutti, mi tengono tre mesi senza lavorare, a guardare i muri come una carcerata. Tre mesi sono lunghissimi da far passare guardando l’orologio.

Un medico Spisal mi scrive che sta aspettando la documentazione utile alla valutazione dell’idoneità all’emissione del nuovo certificato di esenzione altrimenti non può rinnovarlo e non posso entrare al lavoro. A tale scopo, lo specialista che mi segue rilascia una lettera dove mi prescrive degli accertamenti da fare e chiede il differimento previsto dalla Legge, ma il medico Spisal rifiuta la richiesta e aggiunge che, nella sua figura di medico vaccinatore, non ravvede controindicazioni alla vaccinazione e quindi non mi rilascia il certificato di esenzione. Dopo una settimana mi arriva a casa la lettera con la sospensione. Mi ritrovo sospesa dal lavoro e senza stipendio dopo tutti i sacrifici fatti per ottenere un posto di lavoro. Ho riflettuto molto sul mio vissuto e ho deciso di fare ricorso davanti al giudice del lavoro con la speranza di trovare finalmente giustizia.

Dopo tutto lo stress e i soprusi patiti per cercare di sopravvivere in questi due anni e mezzo, oggi mi ritrovo sconfortata e sfiduciata verso il sistema sanitario e i camici bianchi che incontro li osservo con diffidenza. Mi consolo pensando alla sola cosa positiva di tutta questa terrificante esperienza: il Covid-19 ha fatto emergere gli uomini di Scienza e Coscienza e li ha divisi da quelli dell’incoscienza e negligenza… Questo mi fa sperare in un futuro più sano, perché la vera Scienza non può essere esecutrice di ordini.”

Lettera firmata

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