TEATRO ITALIA

TEATRO ITALIA

Teatro Italia – Di Giuseppe Romeo – Non c’è che l’imbarazzo della scelta per definire una rappresentazione che di per sé non ha nulla di artistico e men che mai di poetico. In politica è difficile essere poetici o assumere a grande dignità e valore scelte e persone che in fondo pensano al potere, se proprio ancora meglio.

Si potrebbe citare un Consalvo de I Viceré di Federico De Roberto, in visita a Roma allo zio Gaspare navigato, come si deve essere, senatore del Regno e comprendere il contenuto di un dialogo da politicamente corretto, la cui rilettura sembra descrivere il mondo di oggi. Quello delle pantomime, delle false emozioni, dell’ipocrisia di un premier che si dimette nonostante la fiducia ottenuta quasi a voler finalmente approfittare di una crisi per lasciare la nave aspettando tempi e forse investiture migliori per poter tornare alla guida di un Paese che tutti dicono di amare ma non di più delle loro piccole e private fortune.

L’idea dell’utile crisi definisce in modo chiaro una strategia di abbandono di un esecutivo degli affari che erano già correnti dal momento che nessun cambio di direzione si è visto in un Paese allineato ad una visione emergenziale a senso unico, sottoposto a profilassi senza fine che ha trasformato un virus in un agente politico e le cure in un’ideologia se non in un credo. Una visione che poi, nel conflitto russo-ucraino, si è gettata a capofitto senza pensare a quei necessari distinguo che dovrebbero ispirarsi a prudenza e a realismo senza cadere nell’utile se non ben corrisposta compiacenza a interessi altrui, denunciando i crimini internazionali della parte dichiarata avversaria e sorvolando sui pari crimini commessi dall’amico, o padrone meglio, di sempre.

Oggi, nell’epoca del metaverso, della digitalizzazione delle anime e non solo dei corpi, viviamo ancora in un’Italia da vecchio retaggio postunitario, presuntuosamente approdata ad una Seconda e poi Terza Repubblica il cui merito di quest’ultima è solo quello di aver amplificato se non peggiorato, per scaltrezza e mancanza di scrupoli ormai nudi nella falsa rivoluzione pentastellata rivolta a dare voce agli esclusi dalla torta del potere, i limiti della prima e della seconda.

Oggi si crede di poter raddrizzare un legno storto, politicamente oltre che moralmente ed eticamente storto, fatto solo di arrivismo e di potere, di egoismi di parte e dipartito, di speculazione sulle vite del futuro. D’altra parte è singolare come un premier che incassa comunque la fiducia e che ha accettato l’incarico per responsabilità preferisca dimettersi invece di riprovarci responsabilmente, magari trovando punti di incontro con le parti se è vero che è l’interesse del Paese al centro del dibattito politico e dell’azione di governo. E invece no! Esce dalle stanze del potere magari convinto di potervici rientrare grazie ad un azzardo elettorale voluto e pianificato in tempi brevi per giocare su due fattori sui quali la coalizione che lo ha sostenuto sino a ieri ripone ogni speranza.

Votare il 25 settembre significa non solo aver atteso il giorno utile per la maturazione del tanto agognato vitalizio dei parlamentari, ma anche poter contare su una buona fetta di astensionismo e, in particolar modo, sul fatto che nessuna nuova proposta avrà il tempo di superare gli ostacoli del burocratese che difendono la partitocrazia fallimentare dall’essere disarcionata. Una burocrazia partitica che non si fa scrupoli di colore. Una burocrazia di partito la cui trasversalità, al netto del teatrino stucchevole interpretato anche da un’opposizione cosmetica, laddove sono in gioco poteri di segreteria e mantenimento di seggi soprattutto d’ora in poi venendone meno 345 posizioni tra Camera e Senato, non si pone alcuna remora di sorta visto che saranno i partiti a dettare le condizioni del voto e l’elettore ratificherà solo quanto già deciso trovandosi, questa volta, gli stessi rappresentanti di ieri ma ancor più concentrati e con qualche surrogato di facciata.

Ecco, allora, che lo zio Gaspare dei Viceré non può che avere ragione pur avendo come metro di misura il nuovo, allora, Stato unitario: Questo giovane Stato assomiglia alla vecchia Monarchia. La gente si inchina come alla corte dei Borboni. E un attento e rampante Consalvo preso da un sussulto di dignità o di sorpresa replica: Perdonatemi zio, voi siete di destra, il Presidente del Consiglio è di sinistra (risate dello zio…).

Lo zio Gaspare: destra, sinistra, oggi non significano più niente. Di questi tempi tutto cangia talmente velocemente che non possiamo più stare appresso alle etichette. Consalvo: La gente? Cosa finirà per pensare la gente? Lo zio Gaspare: La gente? Consalvo: Si, voglio dire il Paese. Lo zio Gaspare. La gente? Il Paese? Nomi senza senso, astrazioni.

Teatro Italia

Questo Paese non esiste. Esistono soltanto moltitudini di cittadini in mezzo ai quali se cercherete bene non ne troverete due soli che siano interamente d’accordo su qualcosa. Ma non solo. Qualche anno più tardi ci avrebbe pensato un attento Tomasi di Lampedusa con miglior fortuna a dipingere un animo italiano forgiato nell’adeguarsi al potente e al potere facendo del Gattopardo un emblema più feroce di un camaleonte. Noi fummo i gattopardi, i leoni: chi ci sostituirà saranno gli sciacalli, le iene; e tutti quanti, gattopardi, leoni, sciacalli e pecore, continueremo a crederci il sale della terra […]. Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi’.

Ecco, la data del 25 settembre sembra proprio ispirarsi al giorno del trionfo del gattopardismo. Ad immortalare un cambiamento che sarà solo apparente, ricollocando nuovamente i soliti giocatori solo su apparentemente su posizioni diverse per debito di immagine e non per sostanza. Nel dialogo di De Roberto, prima del disarmante epilogo, quanto nella frase del Gattopardo, si chiude ciò che l’Italia è. Un luogo nel quale i conti si fanno sul piatto del potere e dell’individualismo.

Idee come Patria, nazione, democrazia, partecipazione continuano ad essere solo argomenti per convegni e salotti da perbenisti, affidati ai nuovi apostoli dei media cui ci pieghiamo ogni sera, cui affidiamo l’interpretazione di valori che non hanno più alcuna ragione. L’ingegneria del potere politico è riuscita a ridurre e ricondurre ogni anelito di speranza ad un mero calcolo, e non vi è spazio per le voci dissonanti o per un amore verso l’altro. Continua così, il teatro dell’assurdo, un 1984 con la sua fattoria Italia, questa volta come appendice di un quadro disarmante di leader ancora noiosamente, ma pericolosamente, replicanti.

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