Aldo Grandi, dopo l’avvertimento arriva anche la ‘censura’

di Aldo Grandi

Ebbene, proprio come le ciliege, anche i provvedimenti disciplinari dell’ordine dei giornalisti giungono uno dopo l’altro a seguito delle varie segnalazioni. Ne prendiamo atto, come sempre, ma non retrocediamo. E’ vero, usiamo ‘parolacce’ che, per il futuro, eviteremo di utilizzare, ma sul nostro atteggiamento e sulla nostra volontà di andare contro le autorità costituite quando esse non rappresentano le necessità e i desiderata della gente comune, bensì le aspirazioni di minoranze ideologiche o di qualsiasi altro genere, nessun passo indietro.

Siamo reduci dall’udienza telematica andata in onda ieri mattina – non si capisce per quale ragione, se l’appuntamento è fissato alle 10, noi ci siamo regolarmente mentre, poi, il ‘processo’ inizia sistematicamente mezz’ora più tardi – nel corso del quale tre persone ci hanno interrogato su un articolo apparso nel mese di giugno e intitolato ‘Bono er gatto’.

Tralasciamo il fatto che, nonostante il nostro tentativo di spiegare, siamo stati subito messi ‘spalle al muro’ perché, evidentemente e a loro giudizio, fuori tema – quando ci siamo richiamati a Oriana Fallaci e Ida Magli ci è stato risposto, testuale, che di Oriana Fallaci non gliene importava nulla – Che non fossimo simpatici né al presidente del collegio, ex giudice di tribunale che, ci ha detto, sapeva bene come condurre un interrogatorio, né all’altro componente maschile del collegio, ex giornalista di Repubblica, il quale pur non dovendo parlare se non dell’articolo in questione, ha voluto a tutti i costi e dopo che il presidente aveva finito i suoi interventi, tornare sulle parole che avevamo utilizzato nell’articolo su Silvia Romano per il quale eravamo già stati a giudizio una settimana prima con il presidente del consiglio di disciplina Roberto Mostarda, lo avevamo intuito.

Ma alcune delle domande e delle osservazioni che ci sono state rivolte ci hanno tolto ogni dubbio. L’articolo ‘Bono er gatto’ https://www.lagazzettadilucca.it/cronaca/2020/07/bono-er-gatto/ si riferisce ad una vicenda che ha suscitato particolare sconcerto non solo tra i lettori della Gazzetta, ma, soprattutto, tra tutti quei cittadini italiani che hanno appreso la notizia diffusa anche dalle testate nazionali e da trasmissioni televisive.

Da parte nostra nessuna forma di razzismo, ma soltanto la spiegazione di come, a nostro avviso, continuare nell’accoglienza indiscriminata di persone con culture, opinioni, religione, usi e costumi diversi dai nostri, equivale a minare seriamente la nostra identità e la pacifica convivenza. Ecco, abbiamo sbagliato a non usare, nell’articolo, la parola indiscriminata e questo ci è stato fatto… pagare.

Ma attenzione. Per il resto non abbiamo adottato, nell’articolo, frasi offensive.

Siamo rimasti basiti, invero, di fronte ad alcune delle domande ricevute dai due componenti maschili del collegio: innanzitutto ci è stato chiesto perché avevamo scritto africano e, poi, perché proprio della Costa d’Avorio. Domande che, facendo i cronisti di nera da ben 30 anni, ci sono sembrate prive di senso. Abbiamo semplicemente approfondito e abbiamo scritto la verità. Cosa c’è di male a dire che il gatto era stato ammazzato e cucinato da un africano della Costa d’Avorio?

Poi ci hanno fatto notare che la fotografia – ma abbiamo messo anche il video che, forse, è sfuggito al presidente – non era chiara e che non si capiva bene che animale fosse. Abbiamo risposto che ciò era dovuto al fatto che il gatto era già stato arrostito e aveva, quindi, perso ogni sembianza felina.

Ci è stato domandato se il nostro articolo non ci sembrasse ispirato dal razzismo e abbiamo respinto l’addebito. In precedenza avevamo anche spiegato che l’accusa rivoltaci da Carmine Testa, colui che ha presentato la denuncia parlando di linguaggio volgare da camerata, era fuori luogo sia perché non siamo mai stati fascisti, sia perché abbiamo una relazione di lunga durata con una ragazza ebrea sia, infine, perché se i nostri giudici del consiglio di disciplina avessero approfondito la conoscenza dell’imputato, probabilmente avrebbero scoperto i libri ché ha scritto sul tema che di simpatie verso il ventennio non ne hanno alcuna.

Sempre il giornalista in pensione ha poi accusato, giustamente, il sottoscritto di usare parole molto colorite e pesanti nell’articolo come, ad esempio, quella attinente ‘il dito in c… con l’anello del papa’. E così dicendo ha anche detto che si tratterebbe di una offesa, come è anche riportato nell’accusa, verso il capo di uno stato estero e capo della cristianità.

A questo punto ha anche domandato per quale motivo avessimo usato la parola papa in minuscolo. Al ché, onestamente, siam o rimasti per un attimo a bocca aperta. Abbiamo risposto che noi, in quanto giornalisti e in quanto persone che rispettano e conoscono l’uso della lingua italiana, riteniamo che ci sia un abuso delle maiuscole e, proprio per questo e come ci ha insegnato un maestro di giornalismo, usiamo soltanto la maiuscola per i nomi geografici e i nomi e i cognomi. Per il resto, poco o niente.

Non contento il collega ha fatto notare che avevamo offeso il pontefice – anche pontefice, per noi, va minuscolo – parlando del ‘c… del papa’. Non è vero, abbiamo provato a spiegare prima di essere interrotti dal presidente. Abbiamo usato una espressione tipica romana volutamente ironica, che fa riferimento all’anello del papa e non certo alla sua figura. Tentativo inutile di far ricredere l’autore della domanda.

Alla fine, abbiamo ricevuto, dopo che non aveva mai potuto o voluto intervenire, un paio di domande dalla collega che lavora per la televisione ed è anche una partita Iva come noi. Ovviamente avevamo ribadito, in precedenza, cosa pensavamo di questo governo.

La collega ci ha, quindi, chiesto se, a prescindere dall’essere così agguerriti, non avremmo potuto dire le stesse cose senza usare termini manifestamente fuori dal regolamento. Abbiamo riconosciuto che aveva ragione e che un nostro amico, prima avversario, un noto avvocato penalista, è solito dire che siamo giornalisticamente incontinenti. In futuro, abbiamo concluso, eviteremo epiteti di questo genere.

Poi, ha anche continuato chiedendoci se, visto l’elevato numero di procedimenti disciplinari ricevuti in questi anni – ben 11 ha detto, ma a noi ne risultano molti di più – non ci siamo stancati di perdere e di far perdere tempo. Se non fosse, quindi, il caso di cambiare registro. Abbiamo ringraziato della domanda – le due domande più pertinenti e umane di tutta la seduta – e abbiamo risposto che noi abbiamo lasciato La Nazione, dieci anni fa, perché ci eravamo stancati di fare gli impiegati della notizia e che volevamo fare qualcosa di nostro e di più vivo e incisivo. E’ anche, abbiamo concluso, una questione di carattere. Siamo sempre stati quel che siamo diventati: contrari ad ogni ingiustizia, ma anche contrari ad ogni offesa del diritto di pensarla diversamente da chi, per un motivo o per l’altro, riveste il ruolo di una autorità costituita. Noi siamo per l’autorevolezza che è cosa ben diversa dall’autorità.
Foto Ciprian Gheorghita

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