Nell’ISIS mercenari professionisti a 10mila euro al mese. Molti sono serbi

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di Giovanni Maria Bellu

Sono gli spettatori più attenti e angosciati delle vicende libiche. Perché uniscono le informazioni dei media italiani a quelle delle tv e dei siti arabi e alle notizie raccolte direttamente dalle zone dove è in atto il conflitto. Foad Aodi, medico e presidente del Co-mai (le comunità del mondo arabo in Italia) ha trascorso le serata di ieri e le prime ore di stamani al telefono. Ha parlato a lungo con i suoi contatti in Libia. Contatti autorevoli: colleghi medici che operano a Tripoli e in altre città sotto assedio, giornalisti, esponenti politici. Il quadro che descrive viene dunque da osservatori qualificati che assistono giorno per giorno e “in diretta” all’evolversi della crisi. Un quadro che ne conferma la gravità e, assieme, la necessità di non commettere gli errori del passato.

Gli interlocutori di Aodi dicono che le forze dell‘Isis contano in Libia su un migliaio di miliziani e che sono presenti in tre città, Al-Baida, Derna e Sirte. “La differenza rispetto ai miliziani che operavano al tempo della caduta di Gheddaffi è che sono armati molto bene. Si tratta, per circa la metà, di uomini che vengono dalla Tunisia, dal Ciad, dal Sudan e dalla Mauritania e. per l’altra metà, di mercenari tra i quali ci sono anche parecchi europei, e in particolare elementi provenienti dalla Serbia, che sono i meglio addestrati. Nello scorso novembre, nel corso di un convegno della Lega araba che si tenne in Tunisia, segnalammo con preoccupazione che era in atto il passaggio dalla Tunisia alla Libia di migliaia di giovani che poi andavano in Siria a combattere per l’Isis. Fu il primo segnale di pericolo…”.

Mentre l’attenzione dell’Occidente era interamente concentrata sulle imprese del cosiddetto Califfato in Iraq, l’Isis non solo addestrava i giovani volontari nordafricani in Siria, ma cominciava a inviare i suoi uomini in Libia stringendo alleanze con milizie locali, forte di una disponibiità economica imponente e di tecniche propagandistiche di sofisticata ferocia. Ma, silenziosamente, registrava anche le prime rilevanti defezioni. “Dei 7500 giovani tunisini che hanno lasciato il Paese – continua Aodi – circa 350 sono rientrati e si sono pentiti. Erano partiti con la testa piena di confusi ideali e anche di obiettivi economici e hanno scoperto la ferocia disumana di persone che nulla hanno a che fare con la religione musulmana. Si tratta di un’organizzazione che ha l’obiettivo di imporre la sua leadership nel mondo del terrorismo e che utilizza personale che conosce molto bene la sensibilità e le paure dell’Occidente. Tutti i miei interlocutori sono molto impressionati da come vengono realizzati i video. Sembrano dei film, delle fiction, anche se degli uomini vengono veramente uccisi nel modo più brutale”.

Ed ecco dunque la struttura dell’Isis in Libia come emerge dalla ricostruzione degli esponenti del mondo politico e culturale sentiti da Aodi. Un gruppo terroristico ricco e ben armato che opera su due livelli. In quello superiore c’è il “reparto d’elite” costituito da mercenari di vari paesi, anche europei, che sparge il terrore. Ci sono questi uomini dietro le maschere nere dei tagliagola che vediamo nel video. Professionisti della guerra molti dei quali hanno già combattuto a pagamento (si parla di ‘stipendi’ attorno ai 10mila dollari al mese) su vari fronti. In quello inferiore c’è la truppa, essa pure pagata, ma molto meno, costituita da giovani disoccupati dalle idee confuse provenienti dal Nord Africa e dall’Europa che a volte scoprono di aver commesso un grave errore e tentano, ma non è per niente facile, di disertare. Attorno c’è una potenziale base di reclutamento più vasta, destinata a crescere nel vuoto della politica e nel caos.

Aodi racconta che l’idea dominante tra i suoi interlocutori libici è che l’unica via d’uscita sia un governo d’unità nazionale che prefiguri uno stato federale. Un percorso complesso che può giungere a compimento solo col sostegno delle Nazioni unite e con un ruolo di guida da parte dell’Italia. “Bisogna assolutamente evitare – insiste – di ripete gli errori del passato. Come quello dell’intervento militare francese nella fase finale della dittatura di Gheddafi. La transizione va accompagnata, seguita. Non si può credere che un intervento militare o un brusco cambio di leadership in qualche fazione possa risolvere il problema”.

L’Italia ha un motivo in più per assumere un ruolo di guida. E’ la sua posizione geografica che la porta a subire immediatamente, attraverso i flussi migratori, gli effetti del caos libico. Mentre ancora non c’è alcun segnale dell’utilizzo dei barconi per infiltrare terroristi (il reclutamento oggi è finalizzato ad accrescere le forze in campo nei luoghi di combattimento), si ha la certezza che l’Isis e organizzazioni locali che si sono associate ha soppiantato i vecchi trafficanti.

“Anche le modalità – spiega Aodi – sono cambiate. Ora l’accoglienza, chiamiamola così, in Libia è curata da personaggi spietati che conducono i migranti in centri di raccolta, veri e propri luoghi di detenzione che si trovano anche in aree distanti dai porti di partenza. Quando arriva il momento, vengono trasferiti sui barconi. Con la violenza più brutale. Sono obbligati a partire anche quando le condizioni del mare non lo consentono, a salire sulle barche anche se sono feriti o malati”.

La stabilizzazione politica è la precondizione di qualunque intervento efficace. La Co-mai ha preso posizione da tempo contro l’immigrazione irregolare. Ritiene che la situazione possa essere messa sotto controllo soltanto attraverso la stipula di accordi bilaterali, analoghi a quello già adottato con la Tunisia, tra l’Italia e i paesi di partenza. “Siamo per un’emigrazione organizzata e programmata – sottolinea Aodi – ma per arrivarci è necessario riportare la pace. E la diplomazia è l’unica strada”. tiscali

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