Carlo Violati: le mie idee sulla magistratura italiana

Roma, 16 Settembre 2013 – di: Carlo Violati  Non ho avuto la possibilità di parlare della Magistratura sotto il fascismo. Ero giovanissimo e gli avvenimenti che ricordo hanno altro spessore ed importanza. Parlo della Magistratura del secondo dopoguerra, che certamente ho visto con gli occhi di persona matura. In questo periodo mi interessa soprattutto capire che rapporti ci sono stati tra Magistratura e Politica.

Appena finita la seconda guerra mondiale si è creato un governo di tipo speciale, non eletto dal popolo, un governo sostenuto dai partiti anticamente presenti in Italia (liberali, repubblicani, partito d’azione, democristiani, socialisti, comunisti). Ma noi italiani eravamo già nell’area degli interessi e del controllo delle potenze occidentali, dopo che la Conferenza di Yalta aveva diviso le zone di influenza tra USA, Inghilterra e Francia da una parte e URSS dall’altra.

Il Governo del Comitato di Liberazione aveva attribuito ai vari partiti gli incarichi di governo, ma all’alleanza granitica di sinistra (PCI e PSI) non potevano essere affidate responsabilità incisive. Al PCI (e per esso a Togliatti) fu affidato l’incarico della gestione del Ministero di Grazia e Giustizia. E Togliatti ne approfittò per assumere nei ruoli della Giustizia tanti giovani di sicura fede comunista. Ma Togliatti aveva anche compiuto un atto di grande responsabilità: aveva concesso una amnistia che aveva salvato tutte le cariche statali che avevano collaborato col fascismo.

Realisticamente aveva considerato che l’adesione al fascismo era stata in parte entusiastica e in parte necessaria se si voleva sopravvivere e allora non si poteva distruggere tutto ed era meglio salvare tutti.

Fino alla caduta dei due statisti, Einaudi e De Gasperi, che hanno fatto dell’Italia, uscita distrutta da una terribile guerra, una delle più grandi nazioni sotto l’aspetto economico, non c’erano stati comportamenti da sanzionare.

E’ dalla fine dei Governi virtuosi che cominciano le eccessive invadenze della politica e i comportamenti che porteranno agli scandali di “Mani Pulite”.

E la Magistratura si rese complice di grosse porcherie della politica. Non ha certamente ostacolate le prepotenze della politica che pure erano state messe in evidenza (basta ricordare i film di Alberto Sordi che aveva messo in evidenza delle porcherie evidenti a tutti).

Sono convinto che purtroppo la Magistratura abbia creato, assecondando pressioni politiche assai negative alla fine degli anni ’70, esattamente nel 1979, la rovina della gestione virtuosa della Banca d’Italia.

Dobbiamo ricordare che dei Magistrati di quello che allora veniva chiamato “IL PORTO DELLE NEBBIE” ossia la Procura penale di Roma, ha ordinato l’arresto di Sarcinelli e mandato agli arresti domiciliari il Governatore Baffi, solo perché avevano cominciato a guardare nelle operazioni di Calvi e Sindona.  (Poi Baffi e Sarcinelli saranno completamente scagionati dalle accuse, ma ormai la Procura Penale di Roma aveva distrutto le difese di Bankitalia). Dopo l’eliminazione di Baffi e Sarcinelli e la entrata di Ciampi come governatore il Debito pubblico è passato da poco più del 60% del PIL (nel 1979) al 118% quando siamo entrati nell’euro.

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Poi scoppia “Mani Pulite” e la Magistratura comincia a prevalere sulla politica, distrugge i partiti che avevano governato senza interruzione dal 1956 al 1993 e che avevano violato gravemente le leggi della buona amministrazione pubblica.

E sembrava che fosse venuto il momento della “Gioiosa macchina di guerra del nuovo PDS (erede del PCI) di Occhetto”, ma nasce l’anomalia Berlusconi che diede ai moderati la possibilità di battere le sinistre e portare la destra a governare.

Ma comincia la guerra della Procura di Milano contro Berlusconi e la Magistratura è diventata il vero potere, come racconta Panebianco:

“La magistratura è l’unico «potere forte» oggi esistente in questo Paese e lo è perché tutti gli altri poteri, a cominciare da quello politico, sono deboli. Non permetterà mai al potere debole, al potere politico, di riformarla. Certo, si potranno forse fare – ma solo se i magistrati acconsentiranno – interventi volti ad introdurre un po’ più di efficienza: sarebbe già tanto, per esempio, ridurre i tempi delle cause civili. Ma non ci sarà nessuna «riforma della giustizia» se per tale si intende una azione che tocchi i nodi di fondo: separazione delle carriere, trasformazione del pubblico ministero da superpoliziotto in semplice avvocato dell’accusa, revisione delle prerogative e dei meccanismi di funzionamento del Csm, cambiamento dei criteri di reclutamento e promozione dei magistrati, riforma dell’istituto dell’obbligatorietà dell’azione penale, eccetera. La classe politica, in tanti anni, non è riuscita nemmeno a varare una decente legge per impedire la diffusione pilotata delle intercettazioni. Altro che «riforma della giustizia».”

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Sarebbe ora che cessassero le distorsioni da tempo riconosciute di uno scontro distruttivo, e si faciliti quell’ascolto reciproco e quelle possibilità di convergenza che l’interesse generale del paese richiede.

Lo ha chiesto Napolitano quando PD e PDL insieme ai centristi lo supplicarono di accettare la rielezione.

Com’è possibile accettare che la Magistratura resti più importante della politica che dovrebbe fare le leggi alle quali la magistratura dovrebbe attenersi.

E nella minaccia di far decadere Berlusconi la Magistratura sembra violare leggi, Costituzione e Trattato di Roma.

Il 14 SET 2013 (Tratto da Dagospia) si riportano alcune affermazioni di un Magistrato certamente non favorevole a Berlusconi:
1. Bocassini contro i PM ingroia-stile: “Certi PM usano la giustizia per altri scopi”

2. “Si è verificato ed è inaccettabile che alcune indagini sono servite ad altro” per gli stessi PM, per carriere, per entrare in politica.

In questi vent’anni lo sbaglio di noi Magistrati è di non mai fatto un’autocritica o una riflessione”.

3. Alcuni suoi colleghi si sono sentiti portatori di verità assolute per le loro indagini grazie al “consenso sociale”, cosa sbagliatissima, una “patologia”.
Lo scrive Piero Colaprico per La Repubblica che racconta:

Dibattito affollato per un libro contro-corrente. E con un’Ilda Boccassini che fa salutare con un applauso l’ex collega Gherardo Colombo, nascosto tra il pubblico, ma ripete, con qualche elaborazione in più quel concetto che, appena dopo la strage in cui morì Giovanni Falcone, li divise. E divise la magistratura: «Ognuno deve fare la sua parte, anche i politici, anche i giornalisti, ma in questi vent’anni lo sbaglio di noi magistrati è di non aver mai fatto un’autocritica o una riflessione». Perché, aveva detto poco prima, «si è verificato ed è inaccettabile che alcune indagini sono servite ad altro» per gli stessi magistrati, per carriere, per entrare in politica.
Alcuni suoi colleghi si sono sentiti portatori di verità assolute per le loro indagini grazie al «consenso sociale», cosa sbagliatissima, una «patologia», sia per lei, sia per Giuseppe Pignatone, procuratore capo di Roma, seduto al suo fianco. «Io – racconta Boccassini, che dopo trent’anni ha cambiato colore e taglio di capelli, è diventata bionda – durante Tangentopoli, stavo in Sicilia. Noi vivevano in hotel “bunkerizzati”, con i sacchi di sabbia, intorno era guerra. E quando arrivavo a Milano, per salutare i colleghi, vedevo le manifestazioni a loro favore, “Forza mani pulite”». E non le piaceva, anzi «ho provato una cosa terribile» quando la folla scandiva i nomi dei magistrati, perché a muoverli «non dev’essere l’approvazione».

E’ stato presentato ieri a Milano «L’onere della Toga», di Lionello Mancini (Bur, 11 euro). Un libro che racconta, con molte virgolette, ma anche con le riflessioni dell’autore, la vita di cinque pubblici ministeri normali, tenendo però sullo sfondo alcune domande sulla giustizia e sulle sue disfunzioni. E anche di questo, presentati da Ferruccio De Bortoli, hanno parlato i due magistrati.

Silvio Berlusconi è stato citato en passant, ma dello «scontro tra mass media, magistratura e politica» s’è parlato. Anzi sarebbe stata questa «conflittualità talmente alta» a impedire la «riflessione» nella magistratura che il procuratore aggiunto antimafia di Milano definisce «un corpo sano» in un paese a basso tasso di legalità: «Sì, in Lombardia abbiamo molti incendi dolosi, e nessuna vittima fa denuncia, o dice di aver avuto minacce. Quando scopriamo imprenditori che hanno negato l’evidenza, chiediamo l’arresto per favoreggiamento aggravato, perché o si sta con lo Stato o no. E in più, il vittimismo di alcuni nasconde un do ut des, anche l’imprenditore lombardo si fa aiutare dal criminale e ne trae vantaggi ».

Come ha sottolineato Giuseppe Pignatone, una riflessione dovrebbe nascere in seguito al processo Borsellino: ci sono stati dei condannati sino alla cassazione, ma poi le confessioni di un collaboratore di giustizia hanno raccontato che la verità era un’altra: «Chi ha sbagliato in buona fede deve dirlo», perché i magistrati dell’accusa devono muoversi sempre sulle prove certe, invece, a volte, ripete Pignatone, «quando le prove non ci sono, alcune notizie vengono fatte uscire sui giornali, per una carica moralistica che non deve appartenere alla magistratura».
Anzi, è il contrario. La parola che Pignatone usa di più è «equilibrio», sia per fermarsi, per evitare che persone finiscano nei guai senza prove, sia «per partire e andare sino in fondo quando le prove ci sono». Tutti e due hanno collaborato a lungo nelle inchieste che hanno decimato alcune tra le cosche più potenti della ‘ndrangheta.

Sono entrambi – e lo dicono – in prima pagina dieci volte di più dei colleghi citati nel libro di Mancini, ma conoscono la «nausea» comune a chiunque debba fare un mestiere difficile, che ha a che fare con la vita, la morte, il dolore. E per questo, «se un giornalista ha una notizia che mette in pericolo la vita di una persona, non la deve dare», dice Boccassini, Pignatone concorda, De Bortoli e Mancini alzano gli occhi al cielo.

Cultura, equilibrio e senso di responsabilità. Questo è uno stralcio della prefazione di Giuseppe Pignatone del libro di Lionello Mancini L’onere della Toga, in libreria a partire da oggi.

Lionello Mancini è un giornalista di vaglia e – non credo mi faccia velo l’amicizia – come tale annovera tra le sue caratteristiche una forte curiosità. Curiosità per i fatti ma anche, e direi ancora prima, per le persone che di quei fatti sono protagoniste. Da giornalista economico, per molti anni al “Sole 24 Ore”, Mancini ha progressivamente allargato il suo campo d’interesse (e, appunto, la sua curiosità) al mondo della giustizia, della magistratura, dei processi, includendo tutti quei temi che sono sempre più spesso parte rilevante del dibattito pubblico in Italia e che condizionano, piaccia o no, molti aspetti della vita sociale, politica e anche economica del Paese.

Questo interesse e questa curiosità sviluppati con articoli, inchieste, reportage, hanno, io credo, ispirato L’onere della toga.

Leggendo in trasparenza le storie raccontate nel libro, mi pare emerga che per Lionello Mancini esistono tre condizioni chiave (o almeno tre), tratti essenziali per chiunque svolga la funzione di Pubblico ministero.

La prima potrebbe essere indicata, approssimativamente, con il termine cultura ed è costituita – per Mancini – non dal bagaglio di nozioni tecnico-giuridiche acquisito con gli studi e nemmeno dalla (pur indispensabile) accumulazione di conoscenza data dall’esperienza; bensì, in senso ben più lato e senza perdere d’occhio la specificità del lavoro di Pubblico ministero, il termine sembra riferirsi alla capacità, non sempre innata, di rinunciare ai propri canoni di giudizio per lasciare serenamente spazio alla realtà quale emerge dalle indagini. Un esercizio non facile, che richiede grande apertura mentale e formazione continua. La seconda condizione essenziale, nella visione di Mancini, può essere sintetizzata con il termine equilibrio: non degradato a equilibrismo opportunistico e deteriore, ma come frutto della capacità di valutare le situazioni con obiettività, comportandosi, quindi, di conseguenza, senza tuttavia mai perdere il senso delle proporzioni. Il Pm e, in genere, il magistrato, non deve essere vittima di eccessiva preoccupazione, tanto da esitare davanti a determinati scenari, ma nemmeno deve sentirsi “in missione per conto di Dio”, come scherzosamente amavano ripetere i Blues Brothers, sentendosi così autorizzato a “strattoni” tali da stravolgere i dettati normativi o procedurali.

Questo equilibrio è reso ancor più arduo – e, insieme, necessario – dai poteri accordati dalla legge al Procuratore e ai suoi sostituti e deve anche soppesare con attenzione la diversità dei contesti nei quali i Pm sono chiamati a operare.

La terza condizione che l’autore indica come essenziale per il corretto esercizio della funzione requirente è quella, onnicomprensiva, del fortissimo senso di responsabilità che ciascuno di noi dovrebbe in ogni momento avvertire e coltivare, quotidianamente, instancabilmente. Da ognuna delle storie che seguono emerge, infatti, che senza una profonda consapevolezza dell’impegno assunto, accompagnata da un’ampia percezione delle conseguenze derivanti da comportamenti non adeguati, discende il rischio concreto di danneggiare gravemente i cittadini e, allo stesso tempo, proprio le istituzioni che il magistrato deve contribuire a rendere sempre più credibili anche con il suo operato. Per un verso, dunque, è la stessa responsabilità che grava in capo a ogni dipendente pubblico, ma resa ancora più impegnativa dal fatto che l’azione penale incide sui beni essenziali della persona. E anzi, proprio le peculiarità dell’ordinamento giudiziario – l’autogoverno in primo luogo – devono invitare i magistrati a un surplus di responsabilità.

“Una concezione alta ed esigente dell’azione e della funzione del Pubblico ministero, quella indirettamente espressa da Lionello Mancini, sulla quale è utile una riflessione, in primo luogo da parte di noi magistrati”.

Giuseppe Pignatone è Procuratore della Repubblica di Roma

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