Le scorie nucleari del passato programma nucleare italiano: bomba ad orologeria da disinnescare

Ing. Vincenzo Romanello  – Atomi per la Pace

15 mar – Forse non tutti sanno che agli albori dell’era nucleare l’Italia, patria di Enrico Fermi (padre della prima reazione nucleare controllata della storia), era il terzo produttore di energia nucleare dopo USA e UK. L’era nucleare italiana ha compreso un lasso di tempo di 27 anni, dal 1963 al 1990, ed ha visto l’entrata in esercizio di 4 unità nucleari.

Fig.1 - La centrale Enrico Fermi di Trino Vercellese
Fig.1 – La centrale Enrico Fermi di Trino Vercellese

Durante il loro esercizio le nostre centrali nucleari hanno prodotto 235 tonnellate di scorie. Nel 1999 è stata costituita in Italia la SOGIN, con il compito di controllare, smantellare e decontaminare gli impianti nucleari italiani dismessi e di gestirne i rifiuti nucleari prodotti.

Il 24 novembre 2006 la SOGIN ha firmato un contratto con la francese AREVA dal valore di 250 milioni di euro [1] per il trasporto presso l’impianto di riprocessamento di La Hague (in Francia) del combustibile nucleare irraggiato – 190 tonnellate della centrale di Caorso, 32 della centrale di Trino Vercellese, e 13 del deposito Avogadro di Saluggia.
Il trasporto del combustibile dovrebbe essere terminato quest’anno, per poi fare ritorno nel nostro paese entro il 2025 [2]: ricordiamo infatti che per la legge francese l’ingresso del combustibile irraggiato può avvenire al solo fine di consentire il ritrattamento, e non per lo stoccaggio definitivo.
Dopo il ritrattamento tali rifiuti torneranno vetrificati; sempre secondo l’accordo entro il 2012 avrebbe dovuto essere identificato un sito nazionale per il deposito geologico dei rifiuti, prescelto dal Ministero per lo Sviluppo Economico, di concerto con la Conferenza Stato-Regioni. Entro il 2018 dovrebbe essere avviato l’esercizio di suddetto deposito.

Ma in cosa consistono di preciso le scorie nucleari, e che problematiche presentano? Col termine “scorie” si indica il prodotto dell’irraggiamento del combustibile nucleare nei reattori per la produzione di energia. In natura esistono 3 isotopi  di uranio (ossia tre “tipi”): l’uranio 238 (con 92 protoni e 238 fra protoni e neutroni), l’uranio 235 (con 92 protoni e 235 fra protoni e neutroni), e, in tracce, l’uranio 234. Dei tre indicati sopra l’uranio 238 – che costituisce 99,275% di quello naturale – non è “fissile”, cioè non produce direttamente energia nei reattori termici tradizionali (potrà farlo in quelli di Gen. IV), bensì quando cattura un neutrone si trasforma dapprima in uranio 239 che, con periodo di dimezzamento  di 23,45 minuti, si trasforma in nettunio 239, che a sua volta con periodo di dimezzamento di circa 2,36 giorni si trasforma in plutonio 239, cioè in nuovo combustibile nucleare pronto per produrre energia (si noti che il plutonio, cosi come tutti gli elementi più pesanti dell’uranio, di fatto non esistono in natura). L’uranio 235 invece se cattura un neutrone di qualsiasi energia “fissiona”, cioè si spezza in due frammenti più leggeri (chiamati appunto “prodotti di fissione”) e liberando una notevole quantità di energia (5 milioni di volte di piu di un atomo di carbonio che “brucia”).

Un altro fenomeno che si verifica è che il plutonio 239 formatosi non sempre fissiona, ma talvolta “inghiotte” un neutrone trasformandosi in un isotopo più pesante (plutonio 240, plutonio 241, e così via). In alcuni casi poi alcuni di questi nuclidi decadono e si trasformano in nuclidi più in alto nella tabella periodica degli elementi, ovvero americio e curio (si omettono qui i dettagli per semplicità). Tali elementi essendo più pesanti dell’uranio non esistono in natura e presentano delle catene di decadimento lunghe, che li portano a costituire un pericolo potenziale per millenni. Al contrario i prodotti di fissione più abbondanti presentano emivite  molto più corte (dell’ordine dei 30 anni), ma in compenso emettono molte più radiazioni nell’immediato. Si deve tener presente poi che alcuni prodotti di fissione (come ad esempio lo iodio 129, il cesio 135, il selenio 79, lo zirconio 93, ecc.) presentano emivite lunghissime (dell’ordine dei milioni di anni).
In Fig. 2 è illustrata la composizione tipica delle scorie nucleari (si noti che nel dettaglio essa dipende da molti fattori, fra cui la natura dei reattori, l’arricchimento  iniziale e la quantità di energia liberata (burnup), il tempo di raffreddamento, ecc.): si tratta del 95,6% di uranio (di cui lo 0,87% uranio 235), il 3,4% di prodotti di fissione, l’1% di plutonio e lo 0,1% di attinidi minori (nettunio, americio e curio).

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Fig.2 – Composizione del combustibile irraggiato di un reattore ad acqua pressurizzata (PWR) con burnup pari a 33?000 MWd/t

Si tenga presente che l’uranio viene considerato un elemento naturale, essendo naturalmente presente in natura (anche nei materiali di costruzione delle abitazioni e persino, in tracce, nel corpo umano). La vera “scoria” è costituita quindi da plutonio, attindi minori e prodotti di fissione.
Naturalmente anche l’uranio, a causa dei suoi prodotti figli di decadimento risulta radioattivo, e va stoccato adeguatamente, ancorchè considerato un elemento naturale.

La figura 3 illustra l’andamento della radiotossicità per ingestione (cioè quella quantità che indica il rischio radiologico potenziale in caso di ingestione) dei vari componenti delle scorie contro il tempo: la linea retta azzurra rappresenta la radiotossicità dell’uranio estratto dalla miniera che ha generato le scorie in oggetto (assunto quindi a livello di riferimento); si nota la linea rossa dei prodotti di fissione che raggiunge il livello di miniera dopo circa 400 anni, gli attinidi minori (americio, nettunio e curio) dopo circa 10?000 anni, ed il plutonio dopo oltre 100?000 anni.

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Fig.3 – Andamento della radiotossicità dei vari componenti delle scorie contro il tempo [3] per una tonnellata di metallo pesante con arricchimento iniziale del 3,7% e burnup di 45000 MWd/t
Da qui si capisce l’utilità di rimuovere il plutonio attraverso il riprocessamento, e, se possibile, di trasmutare (cioè di “bruciare”) gli attinidi minori.
Si tenga ben presente comunque che la radiotossicità non rappresenta l’unica quantità di interesse per questo tipo di valutazioni: conta molto anche il calore di decadimento  (che inficia sulle dimensioni del sito ad esempio) – che nei primi secoli è dominato dai prodotti di fissione – e la dose di picco che si può avere in un futuro remoto (governata quest’ultima dai prodotti di fissione a lunga vita, presentando questi una maggiore mobilità nella biosfera).
Si consideri comunque che la soluzione del deposito geologico viene oggi considerata affidabile, avendosi come precedente naturale il caso dei 17 reattori naturali del sito di Oklo, in Gabon (Africa Equatoriale): si è calcolato che, in tali depositi, abbiano subito fissione nucleare circa 5 tonnellate di uranio 235, con una produzione di 6 tonnellate di prodotti di fissione e 2,5 tonnellate di plutonio, con un rilascio di energia di circa cento miliardi di kWh (ossia l’energia elettrica che un impianto da 1000 MWe produce in oltre 11 anni di funzionamento!). Ebbene nel caso del sito di Oklo, entrato in funzione circa due miliardi di anni fa, e che avrebbe funzionato in maniera pulsata per circa un milione di anni, i prodotti della “combustione nucleare” non si sono spostati che di pochi metri in questo enorme lasso di tempo (e non ci sono oggi tracce in superficie) [4].

Ciò premesso sono possibili varie opzioni, in linea di principio, per la messa in sicurezza dei rifiuti radioattivi ad alta attività e di categoria III (quelli sopra citati appunto):

A)    una opzione è quella di stoccare il combustibile tal quale in appositi contenitori di rame (materiale geologicamente stabile) ed acciaio in appositi tunnel sotterranei (a 500-1000 metri di profondità) in appositi siti geologici opportunamente scelti;
B)    una seconda opzione può essere quella di ritrattare (riprocessare) il combustibile spento separando il plutonio, l’uranio, ed i prodotti di fissione assieme agli attinidi minori: vetrificare questi ultimi in opportuni vetri che resistano nel tempo (si pensi all’R7T7 francese), porli in adeguati container di acciaio (Fig.4), e poi in appositi tunnel sotterranei in spessi strati di bentonite (materiale argilloso sigillante) (Fig.5), mentre il plutonio lo si recupera per fini energetici (trattasi a tutti gli effetti di una sorta di “benzina” nucleare) – naturalmente questa opzione riduce il volume di scorie (ma non il calore da loro emesso) vetrificate da stoccare, per il discorso fatto sopra, a circa il 5% di quello originario (operazioni di cui si occupa in francia si occupa l’ANDRA [5]);
C)    implementare opportune tecnologie di bruciamento degli attinidi minori in bruciatori nucleari (si pensi a macchine del tipo ADS – Accelerator Driven System, solo per fare un esempio), sia in isolamento oppure in un consorzio di nazioni interessate allo scopo (sono stati studiati degli scenari in tal senso – si pensi ad esempio al progetto europeo EUROTRANS [6]).

Mentre in alcuni stati si stanno analizzando con cura queste opzioni per poi decidere – insieme a tutti gli attori interessati – l’accordo SOGIN-AREVA citato sopra sembra puntare direttamente all’opzione B. Naturalmente perché tutto funzioni occorre individuare un opportuno sito geologicamente stabile entro la data del rientro di tali materiali nel nostro Paese.
Per far questo sono necessari notevoli studi di fattibilità, che implicano il lavoro di geologi, chimici, fisici, ingegneri, ecc.: si pensi al sito di Bure, in Francia, che di fatto da anni è diventato un vero e proprio laboratorio di radioprotezione.
Ma forse non è questo l’aspetto più importante della questione (per quanto sia importantissimo!). In paesi come la Francia tanto gli impianti nucleari come lo stesso deposito geologico non solo non sono avversati dalla popolazione, bensì vengono contesi dalle varie comunità: questo perché vengono dapprima informati dei vantaggi e svantaggi di un tale tipo di installazione, con la dovuta perizia e pazienza, e si definiscono dei chiari vantaggi per la comunità ospitante.

Fig.4 - Contenitori universali per scorie vetrificate e vetri (di tipo vulcanico) per il contenimento delle scorie (di tipo R7T7)
Fig.4 – Contenitori universali per scorie vetrificate e vetri (di tipo vulcanico) per il contenimento delle scorie (di tipo R7T7)

Di certo il miglior modo per affrontare una tale tematica – delicata e complessa – non è quello di mandare l’esercito (come si è pensato di fare in passato [7]) – infatti in seguito all’insurrezione popolare nel sito di Scanzano Jonico il deposito, originariamente previsto operativo entro il 31 dicembre 2008, non è mai stato realizzato.
Si tenga presente che il sito che avrebbe dovuto raccogliere le scorie nucleari degli USA, Yucca Mountain (nel deserto del Nevada), lo si iniziò a studiare nel lontano 1978 prima che venisse abbandonato (per lo più per motivi politici) nel 2010 – dopo aver investito miliardi di dollari.
E cosi noi oggi ci siamo ridotti a dover ancora prendere una decisione, che, secondo il direttore dell’ISPRA, andrebbe presa almeno entro il 2013 (comunque tardi probabilmente) [8].

I risvolti della questione sono vari e possono essere seri. La direttiva 2011/70 Euratom del 19 luglio 2011 – che dovrà essere recepita dalla nostra legislazione entro l’agosto del 2013 – ha introdotto nuove regole per la gestione di questa tipologia di rifiuti prevedendo l’obbligo per ciascun Stato membro di comunicare alla Commissione Europea (entro l’agosto 2015) il programma nazionale per la gestione degli stessi e ribadendo il principio secondo cui i rifiuti devono essere gestiti e smaltiti presso il paese che li ha generati. Si ricordi poi che la mancanza di un deposito nazionale di scorie impedisce anche lo smantellamento degli impianti nucleari e il ritorno dei siti alla condizione di “praticello verde”, come previsto. Si aggiunga inoltre che la mancata identificazione di un deposito geologico perpetuerà il problema di una adeguata sistemazione dei rifiuti radioattivi continuamente prodotti dall’industria, dalla ricerca e, soprattutto, dalle attività sanitarie. Infine secondo le stime il fatto di mantenere i rifiuti radioattivi in otto siti temporanei invece che in un deposito geologico costerebbe ben 25 milioni di euro all’anno.
Per converso secondo una stima del Ministero dello Sviluppo Economico per la localizzazione e la realizzazione del deposito geologico sono richiesti 2,5 miliardi di euro (incluso il parco tecnologico previsto) – da ricordare che un articolo svedese del 2006 [9] azzardava un costo per il deposito geologico (considerando che in Svezia però sono attivi 10 impianti nucleari, che producono oltre il 60% dei bisogni elettrici del Paese) di 78 miliardi di corone svedesi, ovverosia quasi 9,5 miliardi di euro.

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Fig.5 – Modello schematico del sistema di stoccaggio delle scorie francesi

Ovviamente nel caso di una nazione che ha ancora degli impianti nucleari attivi il costo del deposito non desta in linea di principio grosse preoccupazioni, essendo ammortizzato dalla vendita dell’energia prodotta: ben diversa la situazione in Italia, dove ovviamente dovranno farsene carico i cittadini a titolo di puro capitolo di spesa.

Non ci rimane che augurarci che l’ISPRA e la SOGIN lavorino in serenità e con la collaborazione (e attenzione direi!) dei cittadini e delle forze politiche (forse qualcuno ricorderà che la stampa si è occupata in passato di alcune vicende che hanno interessato la SOGIN, inclusa una interrogazione parlamentare [10,11]) per la soluzione di questa spinosa ed importante questione.

Dr.-Ing. Vincenzo Romanello

Per bibliografia ed altre informazioni

Atomi per la Pace – www.atomiperlapace.it

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