L’evoluzione del nazionalismo cinese.

PECHINO 12 Ott – I recenti scontri per le isole Sendaku/Diaoyu sono il frutto di un graduale riaccendersi − iniziato negli anni ’90 − del nazionalismo popolare cinese. Questo revival si è visto nelle numerose manifestazioni su larga scala di sentimenti patriottici, come le proteste antiamericane in seguito al bombardamento NATO dell’ambasciata cinese a Belgrado nel 1999, le dimostrazioni per il tentativo del Giappone di entrare a far parte del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite nel 2005 e il sentimento anti occidentale diffusosi prima dei Giochi Olimpici di Pechino nel 2008.

Questi episodi, così come le recenti proteste antinipponiche, sono reazioni spontanee agli eventi che sono percepiti come gravi affronti alla Cina e riflettono le umiliazioni che la Cina del XIX e XX secolo ha subito per mano degli Occidentali e delle forze imperiali Giapponesi. Allo stesso tempo le proteste sono state controllate da Pechino: attraverso la propaganda, la mancanza intenzionale di controlli o tramite organizzazioni clandestine, lo stato ha infatti permesso o addirittura alimentato queste manifestazioni pubbliche di patriottismo.

Il nazionalismo europeo è stato l’espressione dell’attaccamento relativamente naturale a stati-nazione che avevano eredità etnica e linguistica comune. Nell’antica Cina al contrario, nonostante migliaia di anni di consolidato potere dinastico, il sentirsi cinese non era ancorato all’idea di un paese in quanto unità singola e omogenea dal punto di vista etnico. Era basato piuttosto sul concetto di società della civiltà cinese (o Huaxia). La legittimità delle dinastie, quale che fosse la loro etnia, era misurata dalla loro adesione ai principi e alle pratiche di questa civiltà. Per la maggior parte della storia cinese l’appartenenza nazionale ha avuto la forma dell’attaccamento alla struttura politica e morale del regno o della dinastia piuttosto che a una più ristretta identità etnica.

Ma questo atteggiamento cambiò radicalmente tra il XVII e il XIX secolo, quando mercanti, missionari e cannoniere occidentali portarono in Cina le idee dell’illuminismo − lo stato nazione, la scienza e la democrazia − e un’occupazione lunga un secolo. Per la prima volta il paese dovette misurarsi con una forza esterna in grado di minare le fondamenta della sua civiltà. È stata dunque la minaccia della disgregazione politica e della perdita di sovranità per mano degli invasori occidentali (e più tardi dei Giapponesi) a forgiare la concezione moderna della nazione cinese.

Il forte contrasto tra il glorioso passato cinese e la moderna umiliazione ad opera di forze straniere ha influenzato fin dall’inizio gli sforzi dei nazionalisti per rafforzare la Cina. Movimenti popolari come la Rivolta dei Boxer cercarono di resistere all’influenza occidentale concentrandosi maggiormente sul popolo cinese e sulle sue tradizioni, mentre altri movimenti, specie quelli guidati da intellettuali e politici riformisti, volevano adottare alcune idee occidentali − tecnologie belliche, teorie sociali e scientifiche − per ridefinire la posizione della Cina e farne uno stato-nazione potente e moderno.

Il Partito Comunista Cinese mise insieme molti di questi elementi − dal populismo rurale di stampo isolazionista all’ideologia prettamente occidentale di classe e rivoluzione − per condurre quella che era, in fin dei conti, una rivoluzione nazionalista. Ma dopo la fondazione della Repubblica Popolare Cinese il partito accantonò lentamente il nazionalismo in favore della lealtà al Partito e a Mao Zedong. È stato solo in seguito alla parziale apertura politica, sociale ed economica degli anni ’80 che intellettuali e riformisti hanno cercato di ricostruire un nazionalismo cinese, che fosse più critico e proiettato all’esterno. Tuttavia i cambiamenti interni e gli sconvolgimenti internazionali che caratterizzarono la fine degli anni ‘80 finirono con l’offuscare il dibattiti sul nazionalismo cinese.

Negli anni ’90 il sentimento nazionalista e patriottico tornò a infiammare non solo gli intellettuali cinesi, ma anche più ampi strati della popolazione. L’incidente di piazza Tienanmen e la caduta dell’Unione Sovietica innescarono una serie di riflessioni circa il futuro della Cina. Favorite dalla crescita economica senza precedenti conosciuta dal paese dopo il 1992, queste riflessioni si tradussero presto nel sentimento comune che la Cina potesse tornare a essere una potenza mondiale. Personalità del mondo accademico e dei media presero ad alimentare la rabbia popolare contro quelli che venivano percepiti come sforzi di un sempre più minaccioso blocco occidentale per impedire alla Cina di divenire troppo potente.

Il partito si fece portavoce di questo sentimento perché vedeva la possibilità di riguadagnare la fiducia del popolo ponendosi come guida per l’ascesa militare e politica del paese. Dato che il socialismo non era più uno strumento efficace per mobilitare il sostegno popolare, il Partito si è rapidamente aggrappato al riemergere del nazionalismo cinese e alla percezione dell’antagonismo occidentale e li ha sfruttati, insieme al miracolo economico, per porre le basi della propria legittimità e autorità.

Nonostante gli sforzi di Pechino, le dimostrazioni e le proteste del nazionalismo popolare si sono concentrate più su problemi sociali e politici interni e il discorso pubblico sulla nazione cinese è stato usato per esprimere lamentele e frustrazioni riguardo questioni sociali, come le confische di terreni, il degrado ambientale e la corruzione dell’apparato burocratico. Anche se negli ultimi vent’anni la maggioranza dei cittadini cinesi ha beneficiato dello sviluppo economico, i guadagni materiali non si sono sempre tradotti in benessere sociale in senso più ampio: le ineguaglianze nella crescita, la corruzione e il monopolio del potere in mano all’elite burocratica hanno esacerbato la rabbia popolare nei confronti del Partito, che ha perso gran parte del prestigio morale e rivoluzionario che ancora aveva all’epoca di Deng Xiaoping. È dunque venuta meno l’idea che il Partito possa forgiare da solo una nazione forte.

Il crescente divario tra il nazionalismo popolare e quello promosso dal Partito fa si che i cittadini cinesi inizino a vedere quest’ultimo come separato dalla nazione cinese, tanto che il controllo del Partito sullo stato e sulle forze armate rischia di indebolirsi. Proprio mentre il Partito sfrutta sempre più il nazionalismo per deviare l’attenzione dai problemi interni, il sentimento nazionalista pone a Pechino sfide ideologiche e pratiche sempre più grandi. Le recenti proteste − nelle quali molti dimostranti hanno chiesto riforme di stampo occidentale − mostrano che il popolo cinese potrebbe presto prediligere una visione alternativa del futuro della Cina, che non sia necessariamente incentrata sul Partito.

Se la popolazione comincia a separare l’idea della Cina in quanto nazione dal Partito Comunista, le istituzioni che si basano sul Partito cominceranno a esser messe in discussione. È il caso, per esempio, delle forze armate, istituzionalmente integrate al Partito sin dalla fondazione della Repubblica Popolare Cinese, ma la cui affiliazione ora rischia di esser sempre meno certa. Il Partito è conscio di questa tensione e da un decennio lavora per consolidare il controllo sulla struttura di comando dell’esercito in modo da renderla più integrata nella sua rete burocratica. Nonostante ciò, mano a mano che il divario tra il Partito e la nazione si farà più marcato, il ruolo dei militari diverrà più cruciale e meno prevedibile.

Liberamente tratto da un’analisi di Stratfor

A cura di Valentina Viglione

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