Robledo: Palamara mi cacciò da Milano. Napolitano eliminò la mia indipendenza

di Stefano Zurlo – – Quando ha letto gli è parso di rivedersi allo specchio. Le carte di Perugia, per quel che si capisce, descrivono un network che mischiava poltrone e anelli, posizioni di potere e vacanze all inclusive. La politica e la giustizia a braccetto. Ad Alfredo Robledo, che oggi non è più in magistratura ma solo cinque anni fa era una delle toghe più note a Milano, non interessano i benefit che appassionano l’opinione pubblica ma le guerre dietro le quinte.

«Nel tempo, come è noto, il rapporto fra il Procuratore Edmondo Bruti Liberati e il sottoscritto si guastò. Ma non si trattava di un conflitto fra due primedonne come pure è stato raccontato, io semplicemente volevo preservare la mia autonomia e indipendenza, lui aveva un’altra concezione. Io riconoscevo in lui il monarca, ma non assoluto. E chiedevo, come stabilito dal Csm, che motivasse il cambio in corsa di regole e assetti codificati».

Una battaglia sempre più aspra in un’escalation di colpi di scena. «In un modo o nell’altro io mi ritrovai isolato nel momento in cui avevo afferrato un filone di indagine su Expo, quello della cosiddetta piastra, che io ritenevo molto promettente e di cui poi non ho saputo più nulla».

Difficile tentare paragoni, anche perché sono molte le tessere del puzzle. Si può ricostruire una singola vicenda, entrando in un labirinto di repliche, controrepliche, pareri, risoluzioni. Ma si può anche cogliere un clima generale, una tendenza, alcuni snodi simbolici.

Robledo, che nel 2014 è procuratore aggiunto e ha il delicatissimo ruolo di guida del dipartimento che si occupa della pubblica amministrazione, si ritrova spalle al muro. Gli vengono imputati rapporti non ortodossi con l’avvocato Domenico Aiello. Perde le deleghe. Dopo qualche mese scatta il trasferimento a Torino.

Lui allinea alcuni elementi: «Io non sono mai stato iscritto ad alcuna corrente, ma posso dire che all’inizio gli esponenti di Magistratura indipendente mi furono vicini, promisero di difendere le mie ragioni al Csm, dove la sinistra di Magistratura democratica era schierata compatta a tutela di Bruti Liberati. Invece, dopo un po’ sparirono tutti, io mi sono ritrovato solo. Il Csm non ha mosso un dito. Nulla. Non so cosa sia successo, io scrivevo documenti, mandavo carte, davo prove di quel che sostenevo, ma mi sembrava di parlare al muro. Solo il Consiglio giudiziario a un certo punto prese la mia parte andando contro Bruti Liberati, ma poi il Csm scavalcò Milano».

Ed è a questo punto che entra in scena Luca Palamara. «È lui che ha scritto il provvedimento cautelare con cui sono stato trasferito a Torino ed è ancora lui, sempre lui, a comporre la sentenza in cui quel trasloco diventa definitivo. E diventa una condanna. Io ho cercato in tutti i modi di far sentire la mia voce, di spiegare che dietro quelle vicende non c’erano beghe personali o caratteriali ma due visioni della magistratura assai diverse. Ma non è servito a niente».

Facile leggere quello di Robledo come lo sfogo dell’ex, come il tentativo di rivincita di chi ha perso il match e non accetta il verdetto. Ma si può anche ricordare come sia stato il premier Matteo Renzi a ringraziare ai tempi di Expo la procura di Milano per la sua «sensibilità istituzionale». Una frase accolta dai giornali con maliziosi e ironici commenti sulle sinergie fra poteri dello Stato.

Oggi l’indagine di Perugia sembra mettere i bastoni fra le ruote al tentativo di egemonizzare, e quindi fatalmente normalizzare, pezzi importanti del sistema giudiziario. «È una storia che parte da lontano, che inizia con me – conclude Robledo – e che fu risolta dall’intervento del Presidente della repubblica Giorgio Napolitano: la sua lettera dava al capo, quindi a Bruti Liberati, poteri estesi ed eliminava l’indipendenza della mia funzione».

Il resto, a sentire Robledo, è stato il dispiegarsi di un sistema. Fino alla condanna firmata da Palamara. «Ma contro quel procedimento ho fatto ricorso alla Corte di Strasburgo. E Strasburgo ha dichiarato ammissibile il mio caso». Un passaggio importante in una vicenda che non è ancora finita.

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