Casa nel Bosco e cambio di sesso a 13 anni: il doppio standard

Antonella Baiocchi

Casa nel Bosco e cambio di sesso a 13 anni: il doppio standard di un sistema di tutela dei minori che ha perso il lume della ragione

Di Antonella Baiocchi, psicoterapeuta ed esperta in criminologia, autrice dei saggi “La violenza non ha sesso†e “Abusi sui minori: le disastrose conseguenze dell’analfabetismo psicologico e del mancato riconoscimento della bidirezionalità della violenzaâ€.

Osservando due recenti fatti di cronaca, emerge con evidenza una contraddizione profonda e allarmante nel modo in cui il sistema istituzionale affronta la tutela dei minori.

Nel caso della cosiddetta “Casa nel Boscoâ€, l’intervento dello Stato è stato immediato e drastico: i figli sono stati allontanati dai genitori sulla base di carenze prevalentemente esterne e materiali — condizioni abitative ritenute inadeguate, isolamento sociale, bisogni fisici non pienamente soddisfatti — e i genitori sono stati sottoposti a valutazioni psichiatriche e personologiche per verificarne la capacità genitoriale.

Al di là delle valutazioni personali su quel singolo caso, il principio affermato è chiaro e inequivocabile: quando si presume un potenziale danno per il minore, il sistema interviene in modo intrusivo, sospende, osserva, valuta e, se necessario, separa.

Nel caso del minore a cui è stato autorizzato il cambio di sesso, invece, il paradigma si rovescia completamente.

Qui non si interviene su bisogni primari o su condizioni materiali, ma su scelte che incidono in modo profondo, strutturale e irreversibile sull’identità, sul corpo e sulla psiche di un soggetto in piena età evolutiva. Eppure, invece di un atteggiamento di estrema prudenza, si è assistito alla legittimazione giudiziaria e clinica di un percorso di indagine sulla disforia di genere avviato addirittura anni prima, in una fase della vita in cui la maturazione psichica, cognitiva ed emotiva è inevitabilmente immatura.

Da psicoterapeuta, considero queste premesse clinicamente inaccettabili.
Sostenere un percorso di “disforia di genere†in età infantile o pre-adolescenziale significa smentire i presupposti fondamentali della psicologia dello sviluppo, ovvero:

  • che l’identità non è un dato immutabile, ma un processo in divenire;
  • che la capacità di discernimento non è presente nell’infanzia;
  • che la confusione identitaria è fisiologica nelle fasi evolutive;
  • che il desiderio non equivale alla consapevolezza;
  • che l’idea di sé e i processi di auto-rappresentazione in età evolutiva sono fortemente influenzabili dal contesto, dagli adulti di riferimento e dalle narrazioni dominanti.

Definire tutto questo come un “atto di civiltà†non rappresenta alcun progresso: è una distorsione concettuale che capovolge i criteri della psicologia dello sviluppo e nega i fondamenti della realtà psichica e dello sviluppo umano.

Siamo di fronte a un esempio emblematico di quell’analfabetismo psicologico che denuncio da anni: una carenza di conoscenza della psiche che non riguarda solo i singoli adulti, ma l’intera rete giudiziaria, sociale e sanitaria deputata alla prevenzione e al contrasto della violenza.

Se, nel caso della Casa nel Bosco, si è ritenuto necessario allontanare i figli e sottoporre i genitori a valutazioni psichiatriche per carenze prevalentemente materiali, allora, per coerenza elementare, lo stesso rigore dovrebbe essere applicato anche a quei contesti familiari e professionali che hanno avviato, sostenuto e legittimato un minore verso una decisione identitaria irreversibile, che nessun bambino o adolescente è in grado di comprendere nella sua portata definitiva.

Il cortocircuito è evidente:

  • da un lato, un sistema che esercita un controllo rigido sulla genitorialità quando vengono meno standard materiali;
  • dall’altro, lo stesso sistema che rinuncia alla propria funzione protettiva quando è chiamato a salvaguardare il mondo interiore, i processi evolutivi e la maturazione psichica del minore.

Non si tratta di progresso, ma di una tutela capovolta, che colpisce in modo spietato dove il danno è meno profondo — come nel caso dei bambini strappati all’affetto genitoriale — e resta muta proprio laddove le ferite sono radicali, strutturanti e irreversibili.

Non siamo davanti a una libera autodeterminazione, ma a una delega decisionale impropria affidata a genitori e professionisti che dimostrano, così facendo, una grave incompetenza rispetto al funzionamento della psiche in età evolutiva.

Se davvero si vuole tutelare i minori, occorre il coraggio di affermarlo senza ambiguità:
un sistema che sospende la genitorialità per carenze materiali, ma al tempo stesso legittima decisioni identitarie irreversibili in età immatura, è un sistema che manifesta una pericolosa e vergognosa incapacità di protezione.

È necessario attivarsi per difendere i bambini dagli abusi che derivano dall’incompetenza degli adulti chiamati a prendersene cura, soprattutto del loro benessere psichico e fisico, adottando provvedimenti seri e coerenti:

  • nei confronti dei genitori che non sanno proteggere il mondo interiore dei figli, spesso perché scambiano il permissivismo per amore e rinunciano alla funzione educativa e contenitiva;
  • nei confronti dei sedicenti professionisti che, invece di intercettare e contrastare derive e aberrazioni cliniche, finiscono per legittimarle, e che per questo dovrebbero rispondere sul piano deontologico e professionale.

Perché la vera tutela non consiste nell’assecondare ogni richiesta.
La vera tutela è proteggere il mondo interiore dei bambini da ferite che non sono in grado di comprendere, scegliere né riparare.

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