“un maldestro tentativo di mutare la narrazione su Gaza, spostando il baricentro sulla necessità di difendere l’esistenza dello Stato di David”
di Giuseppe Romeo – La trasformazione dell’operazione di Israele come un’opportunità per un regime change in Iran sembra essere la nuova declinazione della legittimazione delle operazioni militari sin qui condotte dalle forze di Tel Aviv. Ma non solo. Tra le diverse dichiarazioni vi è anche quella per la quale non viene esclusa la possibilità di eliminare Khamenei. Una possibilità non remota se le capacità di Tel Aviv sono ancora paragonabili a quelle messe in campo negli anni migliori.
Tuttavia, ciò che emerge è una lettura semplicistica delle conseguenze che, a dire il vero, pare che a Netanyahu importino poco se un tale atto, ancorché sostenuto da una riottosa compiacenza di Washington, provocasse una escalation di violenza. E non solo militare, intesa come confronto su un ben definito campo di battaglia. Si immagini, infatti, quale sarebbe il rischio di una possibile attivazione di cellule terroristiche nel dovunque occidentale, le quali metterebbero da parte anche divisioni storiche per considerare un possibile assassinio di Khamenei come un attentato a tutta la comunità islamica. Una condizione sufficiente, questa, per distribuire violenza nell’intimo delle comunità degli Stati ritenuti responsabili o plaudenti un tale risultato.
Certo, all’Arabia Saudita, alla Giordania come alle altre monarchie del Golfo potrebbe importare poco o nulla. Troppo occupate nel conservare i loro troni di sabbia che quotidianamente sono messi in discussione, oggi solidarizzando anche con un regime sino a ieri avversario, sia religiosamente che politicamente. Ma i popoli dell’Islam, al netto di ogni differenza, non sono facilmente governabili in condizioni storiche particolari. L’impero (islamico) ottomano lo ha ben compreso a sue spese, mentre l’Occidente si perde negli slogan da perbenismo da divano lasciando fare ad altri.
La trasformazione di Khamenei in un martire sarebbe, insomma, il peggior risultato ottenibile. Basterebbe immaginare, nella coreografia del dramma che segue ogni fatto di sangue politico in quella regione, il fiume di manifestanti con la foto dell’ayatollah in ogni dove dell’universo islamico; magari chiamando a raccolta tutte quelle realtà di esclusi che popolano le periferie delle monarchie o degli Stati islamici contro un nemico comune: Israele, gli Stati Uniti e, immancabilmente, il solito Occidente europeo. Per Netanyahu, nella sua visione di una sorta di resa dei conti biblica affidatagli da un convincimento messianico, probabilmente tutto questo rientrerebbe in uno scontro tra il Bene e il Male.
Uno scontro titanico tra due visioni bibliche diverse, piegate a prospettive altrettanto diverse e anche egoistiche di potere. Uno scontro che andrebbe, al contrario, deciso dai popoli della regione che dovrebbero condividere valori comuni e non da chi si erge a paladino dell’unico popolo autoproclamatosi “eletto” nel decidere le sorti dell’umanità. Non è un caso, infatti, che «Le Monde» di sabato 14 giugno chiaramente sottolineava che per l’ex capo di stato maggiore dell’Esercito d’Israele, Shaul Mofaz, Netanyahu almeno dal 2012 è animato da una convinzione, appunto, messianica di bombardare l’Iran.
Insomma, si può anche eliminare Khamenei, ma senza la certezza di un regime change favorevole non solo per Israele, ma per l’intero popolo iraniano, si otterrebbe solo la trasformazione di un ayatollah in un nuovo martire. In un nuovo Ahmed Yassin, quest’ultimo creatore di Hamas, questa volta però martire sciita a uso e consumo della propaganda più radicale. Un rischio troppo alto dal momento che ciò potrebbe compattare, invece di piegare a migliori consigli, quel radicalismo che già trova nelle vicende di Gaza terreno fertile per alimentare nuove campagne di odio.
In tutto questo, vi è anche chi si avventura nel ritenere che lo stesso nome attribuito all’operazione militare da parte di Israele Rising Lion sia da interpretarsi come una sorta di opportunità politica offerta da Tel Aviv, ovviamente a suon di bombe, a chi vorrebbe, e comprensibilmente, da tempo un giusto cambio di regime magari guardando al passato regale di uno scià accomodante, per sè. In realtà, non si vede tale finezza politica nell’iniziativa di Israele dal momento che sul piano della promozione della democrazia Tel Aviv ha ben poco da attribuirsi come merito nel tempo. (cfr. Rising Lion e il cambio di regime a Teheran – (https://www.stroncature.com, – 18 giugno 2025)
D’altronde, se gli obiettivi della monarchia persiana, così verosimilmente richiamata dal nome dell’operazione, fossero stati il bene supremo del popolo e la difesa della modernizzazione condividendone il governo in termini democratici e distribuendo le possibilità economiche derivanti dall’offerta petrolifera, la stessa rivoluzione del 1979 non ci sarebbe stata. Aver rovesciato già anni prima Mohammad Mossadeq – responsabile della nazionalizzazione della Anglo-Iranian Oil Company (già Anglo-Persian Oil Company e poi Bristh Petroleum) – è stato l’errore geopoliticamente più grave commesso dagli Stati Uniti e dal Regno Unito con l’operazione “Ajax” sostenuta dalla CIA.
Lo scià Mohammad Reza Pahlavi, messo sul trono dagli anglo-americani, di certo non fu così filantropo nei confronti delle comunità più povere. Monarca assoluto dopo aver fatto imprigionare Mossadeq, e pronto a difendere gli interessi della Anglo-Iranian Oil Company, Reza Pahlevi e la sua velleità da grande impero sarebbe stato la causa determinante della salita al potere dello sciismo. Un risultato che permise dopo il 1979, approfittando delle crisi in Medio Oriente, al rivoluzionario regime sciita di presentarsi quale paladino della rinascita nazionale, promuovendo se stesso quale riferimento e strumento di riscatto per quelle masse di diseredati che popolavano e popolano la marginalità della comunità islamica nella sua interezza.
Ma non bastò. Alla fine l’Occidente, spiazzato, dalla rivoluzione khomeinista – troppo preso a leccarsi le ferite per la perdita dello scià – non seppe neanche investire nel lungo termine in quella figura che si sarebbe man mano allontanata dall’ingombrante peso della gerarchia sciita. Quel Abolhassan Banisadr, decisamente promotore della rivolta contro lo scià, primo Presidente della Repubblica seppur islamica, iraniana, capace di rintuzzare il dettato di Khomeini sino a dover fuggire in Francia dopo appena un anno dalla dichiarazione del nuovo corso.
Ecco, perché, qualunque sia la ragione dell’aver scelto un nome piuttosto che un altro utilizzando il simbolo dell’Iran per sottendere o meno “buone” intenzioni, ciò non assolve Israele dall’aver messo in pericolo la sicurezza – per quanto in tale regione questo termine possa avere un senso – di buona parte della popolazione iraniana, del Medio Oriente e di quella europea scegliendo unilateralmente di attaccare l’Iran by-passando, come sempre se non conveniente, l’interlocuzione in sede Nazioni Unite. Rising Lyon resta, infatti, un maldestro tentativo di mutare la narrazione su Gaza, spostando il baricentro degli equilibri precari sul piano della necessità di difendere l’esistenza dello Stato di David di sicuro non preoccupandosi, oggi, della sorte di uno Stato che nel passato non è stato certo sostenuto dalle attenzioni di Tel Aviv.
Tuttavia, ciò non significa che l’operazione non possa modificare gli assetti interni dell’Iran. Ma tale possibilità/opportunità richiederebbe urgentemente un cambio di prospettiva e di azione, riconducendola all’interno di un quadro di negoziato e di prevalenza del buon senso sulle armi, accelerando quel superamento di un “paradigma rivoluzionario”, così definito, che ha legittimato un regime teocratico per più di 45 anni. Se così fosse, si tratterebbe di un superamento che di certo non nasce da nostalgiche ambizioni di far ritornare sui propri passi una casa regnante che per prima ha la responsabilità dell’ascesa al potere del regime degli ayatollah.
Questo, infatti, è molto ben chiaro alle anime riformatrici abbandonate al loro destino e profughe in Europa. L’aver permesso per miopia dell’Occidente, che l’Iran degli ayatollah si presentasse nel tempo agli occhi della comunità islamica nel suo complesso quale alternativa, oltre che scontatamente religiosa, anche “politica” al sunnismo, farà tutta la differenza nel decidere come e in termini gestire una ipotetica transizione laica del destino dell’Iran. Un aspetto molto ben chiaro in quello che sopravvive del Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana voluto da Banisadr.
Una transizione auspicata per decenni, che non potrà essere barattata con una possibile, pericolosa balcanizzazione dell’Iran dovuta a uno strumentale uso delle discordie etnico-nazionali, tra curdi e beluci, utili per Israele e Stati Uniti, ma non funzionali a garantire stabilità al Medio Oriente riconoscendone una propria autonomia seppur all’interno dell’Iran. Infatti, un nuovo Iran, laico, democratico e rispettoso delle minoranze farebbe tutta la differenza possibile, quanto un pari Stato democratico e laico di Palestina, se la comunità internazionale riuscisse in futuro a limitare gli interessi al divide et impera di Tel Aviv e di Washington.
E, questo, per evitare ritorni di nuovi guardiani con l’affermarsi di nuovi “paradigmi” o, forse, nuove tentazioni rivoluzionarie che non solo priverebbero di ogni residuale senso l’operazione Rising Lyon, ma impedirebbero all’Iran di prendersi una sua giusta rivincita sulla pavidità del Bene misurato sugli interessi angloamericani e sulla crudeltà del Male promosso dal radicalismo religioso.
Prof. Giuseppe Romeo – https://giusepperomeo.eu