Allevamenti sostenibili, “la UE finirà per importare carne di bassa qualità”

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Puntare sugli allevamenti sostenibili e non su quelli intensivi aumenterà sicuramente la qualità dei prodotti e anche della vita degli animali, ma il rischio è che con la transizione non si riescano a soddisfare le esigenze di mercato, e che si finisca poi per dover comunque importare carni e formaggi da Paesi non Ue, abbassando così il livello qualitativo. E’ il rischio paventato da Didier Delmotte, presidente della Federazione europea per la salute e la sicurezza sanitaria degli animali (Fesass).

La Federazione, finanziata dalle principali Associazioni di allevatori negli Stati membri dell’Ue, esprime dubbi sulla nuova politica europea, sempre più attenta al benessere animale e orientata verso prodotti che sappiano coniugare qualità e sostenibilità del cibo. Il problema, secondo Delmotte, sta nella riduzione della quantità di carne prodotta, che non arriverebbe quindi a soddisfare la domanda, comunque consistente, da parte dei consumatori europei.

“L’azienda zootecnica media europea utilizza oggi 34 ettari di terreno agricolo e ha, in totale, una mandria di 47 animali, con un impatto ambientale significativamente ridotto come risultato”, sottolinea Delmotte in una lettera pubblicata da Euronews, e prosegue: “Al contrario, la metà di tutta la produzione di latte degli Stati Uniti proviene ora da mandrie con più di 900 vacche”. Questo dato si tradurrebbe in maggiori importazioni, di solito da Paesi meno attenti di quelli dell’Ue alla salute degli animali e degli uomini.

Allevamenti sostenibili

Secondo il presidente della Fesass, i passi avanti fatti dagli allevatori europei sono enormi, in particolare in relazione alla salute degli animali, avendo fatto “grandi progressi nell’eradicazione della rinotracheite bovina infettiva”. Rivendica inoltre gli investimenti regolari in tecnologie di monitoraggio come i marchi auricolari, cioè quei contrassegni di plastica dotati di un codice identificativo univoco dell’animale, applicati  alle orecchie di ciascun capo dall’allevatore.

“Eppure, anche se l’agricoltura europea soddisfa il benessere e migliora per adempiere alle aspettative ambientali, ora non nutre più tanti cittadini come prima”, commenta amareggiato Delmotte. “Questo significa una continua domanda di cibo importato dall’esterno dell’Ue, che porta con sé ulteriori questioni ambientali e di garanzia della qualità”. Delmotte, in breve, bussa alla porta della politica europea per ricordare che ci sono comunque dei compromessi da fare e che la redditività per gli allevatori resta importante per continuare ad avere carne “made in Europe”.

Tra due fuochi

Il mondo dell’allevamento, in particolare di bovini, è sicuramente al centro di un periodo epico e pieno di scossoni. Da un lato, è uno dei settori reputati tra i principali responsabili delle emissioni di Co2, quindi al centro di numerosi dibattiti ambientali. Proprio ieri è uscito il report dell’Istituto per l’agricoltura e la politica commerciale, che riversa sulle grandi aziende che producono carni e latticini la responsabilità di inquinare quasi quanto un colosso petrolifero come l’Eni.

Dall’altra parte, c’è la minaccia della diffusione della carne in vitro o di quella plant-based (100% a base vegetale), che sta godendo dei mega-investimenti di imperi economici, come quelli di Bill Gates, Elon Musk o Sergej Brin ( Ceo di Google). Attaccati da più fronti, gli allevatori europei rivendicano il loro ruolo di “garanti” della qualità delle carni e dei prodotti caseari per l’Ue.

“Corriamo il rischio di una corsa al ribasso, con una crescente carenza di veterinari”, evidenzia Delmotte, che conclude: “Questo porterebbe a carne e prodotti lattiero-caseari di qualità inferiore per i consumatori, e a una crescente dipendenza dai prodotti importati che possono avere standard diversi”.

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