Testimone antindrangheta. “Mi devono uccidere e nessuno fa niente”

di Antonio AmorosiChi denuncia le mafie ormai lo fa perché non accetta di piegarsi allo strapotere della criminalità organizzata, non perché creda nello Stato. E’ la drammatica condizioni di molti che si trovano a collaborare con le istituzioni italiane. E lo mostra la storia drammatica di Franco Gaetano Caminiti che da testimone contro la ‘ndrangheta è diventato l’attentatore di sé stesso, in attesa dell’ennesimo attentato, continuando a ricevere minacce e agguati.

“Vivo nel terrore che mi possano uccidere da un momento all’altro. E nessuno fa niente. Sono invisibile”, dice ad Affaritaliani Caminiti con la voce depressa. “Ogni giorno mi sveglio e non so se uscire di casa”, spiega. Commerciante di Reggio Calabria, vittima del racket della ‘ndrangheta e che con le sue denunce ha permesso l’arresto e la condanna di tanti ‘ndranghetisti, Caminiti ha visto intorno a sé aprirsi il deserto.

“Se questo è il prezzo che bisogna pagare non so chi è disposto a collaborare con la giustizia italiana, ma tanto le mie sono parole al vento”, ripete sconsolato.

Negli anni ha ricevuto buste con proiettili, un candelotto inesploso, teste di capretto scuoiata, l’attività incendiata, un intero caricatore di pistola scaricato addosso ma è ancora vivo e in un’escalation che dura da più di un decennio.

Anche la recente l’Operazione “Las Vegas” sul dominio del re del videopoker a Reggio Calabria e provincia porta la sua testimonianza. Nel 2013 Caminiti era titolare di una sala giochi nel Comune di Pellaro. Le sue dichiarazioni sono state utilizzare per il sequestro dei beni degli indagati. Un mese fa, il 17 settembre 2020, all’anniversario dell’arrivo di altro un pacco esplosivo, recapitatogli il 17 settembre 2013, puntale come la morte si è ritrovato nella buca delle lettere di casa la testa mozzata di un uccello e il messaggio “fai la stessa fine”.

“Le persone oneste come te e me non avranno pace in questa città… la ‘famosa montagna di merda’ è diventata per negligenza una catena montuosa…”, scrive sulla pagina Facebook di Caminiti Salvatore D’Amico, un ex imprenditore calabrese, vittima anche lui di racket e attentati.

Caminiti durante la vita ha fatto ben 62 denunce contro la ‘ndrangheta che hanno portato alle condanne, nei processi “Gambling” e “Azzardo”, di esponenti dei clan Alvaro, la cosca più grande e pericolosa del reggino, Tegano, De Stefano e Latella. Stessa determinazione nell’Operazione “Casco”. Grazie ai suoi racconti sono stati arrestati anche due nipoti della moglie, i fratelli Zindato. Il commerciante ha due attività a Reggio Calabria, un centro postale e un punto Enel. Ma è voce di popolo che lo dovranno uccidere.

“Non ho più fiducia della legge italiana. Anche chi si occupa di giustizia consiglia di starmi lontano”, racconta ad Affari.

Nel 2013 ha restituito la tessera di Libera (don Ciotti, ndr), non condividendo le politiche dei rappresentanti locali dell’associazione. Un esponente dell’associazione Libera lo ha anche segnalato nel 2011 alle forze dell’ordine per la parentela con i nipoti. “Lo sanno tutti che ho fatto arrestare i miei nipoti”, ripete Caminiti che da qualche anno si ritrova anche addosso un processo per simulazione. Uno dei tanti raid, in cui gli hanno sparato, se lo sarebbe fatto da solo. Come? E’ ancora un mistero. Dal 2017 è aperto un procedimento a suo carico, siamo nel 2020 e lo Stato non è riuscito neanche a svolgere un’udienza. Col pericolo che se si sbagliasse, cosa molto probabile, starebbe giudicando un uomo innocente che ogni giorno rischia la vita, testimone a rischio, lasciandolo senza protezione e senza speranza.

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