La tragedia siriana e l’impossibile ‘luna di miele’ russo-americana



Analisi attendibile e competente di un noto studioso/insegnante e giornalista, esperto in geopolitica, già da noi ospitato su queste pagine. Ha pubblicato diversi libri sull’islamismo radicale, il terrorismo islamico e la cristianofobia. Recentemente è uscito in Italia: Il caos siriano – Dalle rivoluzioni arabe al jihad mondiale, scritto in collaborazione con Randa Kassis, che chiarisce molte dinamiche e indica le soluzioni per affrontare un comune nemico «che ci fa guerra sia col terrorismo, il jihad globale, sia attraverso un proselitismo neo-imperiale sponsorizzato dagli “strani amici” sunniti del Golfo». (M.G.).

In seguito al raid aereo americano sull’aeroporto militare siriano di al-Chayarate, che ha causato pochi morti tra i soldati fedeli al regime ma ha danneggiato l’aviazione siriana come rappresaglia per l’attacco chimico dell’esercito siriano al sito jihadista di Khan Cheykhoun, l’amministrazione Trump è forse pronta ad un confronto diretto con l’Iran et la Russia, che sostengono il regime di Assad?

L’impegno iniziale dell’avvicinamento a Mosca dell’Amministrazione Trump per porre fine alla nuova guerra fredda (che impedisce ai paesi euro-occidentali di combattere insieme contro il loro comune nemico islamista sunnita) si sta frantumando? L’allontanamento di Michaël Flynn, accusato di essere « pro-russia », è stato un segno precursore. La guerra psicologica e mediatica sugli attacchi chimici attribuiti immediatamente (e senza prove inconfutabili) al regime siriano – che la Russia è accusata di coprire – rischia forse di dare il colpo di grazia all’ala filo-russa statunitense e di rimettere in discussione la dottrina neo-isolazionista Trump, osteggiata da molti democratici e repubblicani dalla volontà interventista nella guerra contro la Russia?
Al momento è  troppo presto per dire di sì, specialmente per il fatto che 59 missili Tomahwk USA sull’aeroporto siriano – dal quale avrebbero decollato alcuni giorni prima i velivoli che avrebbero effettuato l’attacco chimico su un campo siriano di al Qaeda (Tahrir al-Sham) – ha molto poco indebolito l’esercito siriano; il che sembra quindi essenzialmente mirato a «incidere sulla politica interna e ad uso mediatico esterno» …

Eppure, la crisi siriana è più che mai (fin dall’inizio della guerra civile) un ostacolo tra, da un lato gli Stati Uniti, le potenze filo-islamiche sunnite, i paesi atlantisti dell’Unione europea e, dall’altro, la Russia e l’asse sciita-iraniano in generale pro-Assad. Come è stato «scritto», la luna di miele russo-americana molto annunciata e criticata dagli strateghi anti-russi NATO non potrebbe prender consistenza, almeno non così facilmente come poteva sembrare. La tecnostruttura imperialista statunitense essenzialmente interventista e i circoli strategici americani vedono sempre nella Russia lo spettro del nemico la cui ossessiva identificazione è utile per mantenere il predominio sul Vecchio Continente e l’interferenza negli affari del «vicino-estero» russo e dei paesi arabi alleati di Mosca. Tutto va bene, compreso lo sfruttamento emozionale e cinico delle tragedie della guerra civile, per evitare il riavvicinamento russo-americano.
Inoltre, è chiaro che la strategia frutto della guerra fredda – ma ereditata da una visione geopolitica anglosassone molto antecedente (Mackinder e il contenimento della Heartland= nome dato alla zona centrale dell’Eurasia, corrispondente all’incirca alla Russia e alle province limitrofe -ndT) per mantenere il contenimento e l’«indietreggiamento» della Russia tal quale quello dell’ex URSS, è una tendenza geopolitica che Trump avrà grande difficoltà ad arginare.

Precipitazione e bombardamento a caldo: segnali di strumentalizzazione della crisi a fini mediatici e di politica interna

Mentre non sono stati effettuati studi di esperti e le fonti delle «prove» sull’attacco chimico attribuito al regime sono le organizzazioni e le persone che vivono nella zona dei ribelli nelle mani dei jihadisti del ramo siriano di al Qaeda (Tahrir al-Sham), il governo siriano e la Russia sono stati subito accusati dalla cosiddetta «comunità internazionale» di aver usato gas velenosi contro bersagli dell’opposizione in Siria la mattina del 4 Aprile, causando secondo le «fonti» tra 70 e 90 morti, tra i quali le foto di una trentina di bambini sono state brandite di fronte al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite dallo stesso ambasciatore statunitense alle Nazioni Unite, Nikki Haley.
Fenomeno strategico stupefacente, Nikki Haley è passata in soli due giorni dal non vedere più Assad come un nemico e non prendere più in considerazione la sua rimozione ad un appello a bombardare il suo regime, lo stesso appello sostenuto da Donald Trump pronto ad un completo capovolgimento – almeno verbale – destinato a migliorare la sua immagine cavalcando l’indignazione del momento, piegando anche ufficialmente a 190 gradi la sua strategia iniziale.

Fin dall’inizio del conflitto, l’idea di fondo che prevale in Occidente – enfatizzata dalla diplomazia francese, ancor più che dalla stessa amministrazione Obama – è che la Russia e la Siria hanno sempre torto e i ribelli (tranne Da’esh) hanno sempre ragione. In questa visione manichea, la principale causa del male sarebbe il solo Assad e i suoi alleati russo-iraniani e Hezbollah: il che è una ragione sufficiente perché l’agenzia specializzata delle Nazioni Unite abbia riconosciuto ufficialmente che il regime siriano ha distrutto le sue scorte di armi chimiche di cui i ribelli sono in possesso di considerevoli quantitativi mai distrutti, Washington e i suoi alleati non prendono nemmeno in considerazione la possibilità che i jihadisti sunniti utilizzino armi chimiche. Secondo questa visione, Da’esh non avrebbe avuto alcuna ragion d’essere senza questo demone principale costituito dall’asse sciita-iraniano-siriano che il presidente Trump e i suoi consiglieri anti-iraniani hanno così improvvisamente voluto punire il 7 aprile, con una fulminea inversione di tendenza, bombardando l’aeroporto di al-Chaayrat (nei pressi di Homs). E ciò unilateralmente, senza mandato delle Nazioni Unite e senza alcuna prova di responsabilità del regime siriano. E quando si sa che questi «attacchi» degli Stati Uniti non hanno indebolito in modo significativo l’esercito siriano, ma sono essenzialmente dimostrativi, ciò rafforza la mia convinzione che le democrazie d’opinione governate da manipolatori mediatici e da emozioni amplificate non sono più in grado di agire sul lungo termine e di «mantenere» una visione strategica fondata sulla difesa d’interessi lucidamente ponderati.

La crisi sull’attacco chimico e la «risposta» militare degli Stati Uniti sono stati formidabili pretesti per il presidente americano che ha tentato così di «dimostrare» che non era né debole – come il suo predecessore – né «connivente con Putin», per non parlare di «compiacente» di fronte ad Assad.

L’idea dunque è quella di inviare un messaggio molto forte in varie direzioni:
in primo luogo al regime e ai suoi sostenitori iraniani e russi;
in secondo luogo ai circoli strategici statunitensi (avvertimento) e atlantisti che troveranno più difficile accusare Donald Trump  di «tradimento» nel quadro di un empeachment sempre più improbabile;
in terzo luogo: ai media che non potranno più accusare Trump di fare il gioco dei russi e di Assad e di tollerare l’intollerabile; il che potrebbe giovare a porre fine alle polemiche che hanno fin troppo nuociuto all’immagine del presidente nel suo contesto.

Agitandosi così «a caldo», cavalcando la carica emotiva senza il necessario distacco e anticipando i resoconti di esperti – per ora incapaci di individuare l’esatta natura dei prodotti tossici e la loro provenienza in mancanza di campioni affidabili -, Trump ha preso la palla al balzo e ha pensato bene di sfruttare questo disastro umanitario come pretesto per cambiare completamente strategia, lui che tanto aveva criticato l’interventismo militare americano e ribadito che il regime di Assad non era il nemico principale.

Strane coincidenze strategiche e tattiche

Senza cercare di negare le responsabilità dell’aviazione siriana, della quale sono noti i metodi «radicali» insiti essi stessi in una guerra «radicale» (nello stesso tempo locale, nazionale, regionale, internazionale, dalle dimensioni religiose, politiche ed etniche (curdi /arabi sunniti, baathisti / islamisti;  islamisti / jihadisti, sciiti e minoranze sunnite, implicazioni dei paesi del Golfo, della Turchia, dell’Iran, di Hezbollah e dell’Occidente e soprattutto della Russia, ecc), non si può non essere sorpresi dalla «tempistica» dell’attacco chimico attribuito all’aviazione siriana. Questa è stranamente sopraggiunta giusto alla vigilia della conferenza internazionale sulla Siria tenutasi a Bruxelles che «rischiava» di riabilitare il regime, e poco dopo le esperienze di Astana che avevano in parte rimesso in pista Damasco nel quadro di un progetto di cessate il fuoco, per non parlare delle dichiarazioni di Donald Trump e dell’ambasciatrice degli Stati Uniti alle Nazioni Unite, Nikki Haley, che aveva formalizzato un cambio di strategia inteso a non più considerare Assad come il nemico, ma a concentrare gli sforzi militari contro i jihadisti islamici. A quanto pare, il regime siriano non avrebbe avuto alcun interesse a simili azioni nell’ipotesi che cercasse di mantenere il suoi appoggi e di essere più o meno reintegrato nel consesso delle nazioni.

Un’altra ipotesi – da non scartare – è che questo regime e il suo dittatore – accusati di autismo politico da parte di coloro che lo conoscono – non vogliano partecipare effettivamente a una soluzione della crisi che comporterebbe il rischio di dover lasciare il potere (democraticamente) se i «siriani dovessero decidere in tal senso», come aveva suggerito lo stesso Donald Trump. Anche se il suo ritiro non è stato richiesto come precondizione dall’Amministrazione Trump, che convergeva con la posizione russa per sbloccare la situazione, Assad non sopporterebbe l’idea di uscire sia pure dalla porta principale e dopo una riconciliazione nazionale.
Spesso tralasciamo di ricordare che i russi stessi non erano molto lontani da questa posizione dal momento che Mosca ha più volte ripetuto di non difendere la persona di Bashar al-Assad ma il regime, per poi promuovere una transizione che lo includerebbe insieme alle forze ribelli accettabili; cosa che differisce dalla posizione iraniana molto più pro-Assad. In questo caso, si capisce il disagio di diplomatici e leader russi il cui protetto sarebbe in realtà più difficile da difendere e sembra aver preso le aperture di Trump come un segno di debolezza, proprio come il regime della Corea del Nord, diventato un vero e proprio rompicapo per il suo protettore cinese.

Avvelenamenti chimici e dei media

Difficile negare che al terrificante avvelenamento chimico si aggiunge anche l’intossicazione mediatica planetaria nonché la propaganda e la guerra di disinformazione alimentata da entrambi i lati. Questa «guerra di rappresentazioni» (che preparano, accompagnano o seguono sempre le guerre militari) sembrava essere vinta, in seguito alle riunioni di Astana, da Mosca, che dal 2013 aveva segnato a suo favore molti punti militari e diplomatici. Tuttavia, negli ultimi giorni, essa è stata vinta sul campo emotivo e umanitario da molte forze che in Occidente, nei paesi del Golfo e altrove, non hanno visto per nulla di buon occhio la relativa riabilitazione del regime siriano constatata dopo l’arrivo sullo scacchiere di Trump e le iniziative di Astana rese possibili dalla riconciliazione tra Ankara e Mosca.
Ovviamente, in Occidente, la spinta prevalente dall’inizio del conflitto è che solo il regime di Assad potrebbe essere la causa di tali violazioni del diritto internazionale di guerra e dei diritti umani. Eppure, è molto probabile che i ribelli jihadisti come il fronte Tahrir al-Sham; ex Fatah al-Sham, ex al-Nusra (Al-Qaeda in Siria) sono in possesso del gas sarin, poiché gli stessi esperti statunitensi avevano verificato un paio di anni fa che c’era una «distribuzione» relativamente «uniforme» delle scorte di armi chimiche tra tutte le forze – regime e anti-regime. E nessuno può escludere una strategia suicidaria dei jihadisti che hanno cercato di provocare il bombardamento delle loro scorte di armi chimiche per provocare una catastrofe umanitaria e porsi come vittime. Ricordiamo inoltre il 2013 e gli orrori dell’attacco con i gas a Goutha, sobborgo di Damasco: esperti internazionali hanno ripetutamente deplorato l’uso e il possesso di sarin da parte di gruppi islamisti anti-Assad.

Conclusione

Il raid degli Stati Uniti sull’aeroporto militare siriano va inscritto nel quadro di un cambiamento totale e duraturo nella strategia degli Stati Uniti in Medio Oriente? Si tratta di un ritorno all’interventismo, inizialmente denunciato da Donald Trump, o di una «trovata pubblicitaria» destinata a migliorare l’immagine del Presidente degli Stati Uniti la più bassa nei sondaggi a così breve distanza dalla sua nomina? Con l’obiettivo di «dimostrare» che egli è in grado di punire il «cattivo» che lo si accusava di risparmiare.
Risponde al vero il fatto che il messaggio multi-direzionale vera ragione di questo raid non è destinato a rovesciare Assad e può non solo lasciare il segno sull’opinione pubblica americana e mondiale, ma anche far riflettere proprio sulla Russia sia l’Iran dei mullah e il regime totalitario della Corea del nord che la Cina e, naturalmente (come denunciato in questi giorni negli Stati Uniti dai nemici di Trump). a causa dell’attivismo militare russo in Ucraina e in Siria.
Presumibilmente, non stiamo assistendo ad una strategia complessiva e ad una duratura inversione di tendenza. L’Amministrazione Trump cerca soprattutto di calmare i suoi nemici interni e far pervenire loro un primo messaggio radicale destinato non solo a mettere gli Stati Uniti al centro del processo di transizione in Siria, ma anche a «dimostrare» che Trump non è una tigre di carta come lo si è criticato (Cina) o un semplice chiacchierone abile nel bluff. Naturalmente si tratta anche di dissuadere il nemico iraniano, il più fedele e incondizionato sostenitore di Assad, mettendo fine alle accuse di russofilia che tanto hanno messo in imbarazzo Trump e offuscato l’immagine della sua squadra fin dalla sua nomina. Resta il fatto che, anche se si trattasse di un’operazione planetaria, le relazioni con la Russia, che ha denunciato la violazione del diritto internazionale, per ora si complicano e, benché non si tratti di una guerra d’interposizione tra Russia e Stati Uniti, l’asse americano-russo idealizzato da alcuni non è per domani, perché le pesanti tendenze della geopolitica americana non lo consentono.

Alexandre Del Valle

Traduzione a cura di Chiesa e post-concilio

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