Le suggestioni veneziane di Cesare de Seta

Cesare de Seta
Venezia e Moby Dick
Casa editrice Neri Pozza

Ciascuno di noi ha in cuor suo un’idea di Venezia, proprio perché di questa straordinaria città non esiste e non può esistere una definizione esaustiva. Venezia è sgusciante e imprendibile, come un animale misterioso. L’idea di Cesare de Seta è che essa sia come Moby Dick, la balena bianca con cui Ahab mette in gioco il suo destino: un’inafferrabile città-destino, immersa nel Mediterraneo con i suoi tentacoli-isole. Un accostamento azzardato tra la magnifica città dei rii e dei campielli e il capolavoro di Melville? Provate allora a leggere -magari di notte, com’è accaduto all’autore di queste pagine. Moby Dick e a soffermarvi, nel capitolo intitolato Sulle raffigurazioni mostruose delle balene, sulle singolari righe in cui Melville descrive la balena dei legatori, «avvinta come un tralcio di vite al ceppo di un’àncora calante», e cita Aldo Manuzio. Il logo di Manuzio, quel Leviatano che campeggia su ogni suo libro, vi apparirà allora come una raffigurazione simbolica di Venezia. Animato da quest’idea, de Seta si è mosso alla ricerca degli infiniti tesori che giacciono nel corpo di questo misterioso Leviatano: le opere che hanno segnato la storia dell’arte e sulle quali incombe una tale bibliografia da far tremare i solai di una biblioteca. La tempesta di Giorgione, ad esempio, il dipinto il cui soggetto è uno dei grandi nodi irrisolti della storiografia artistica. Viaggiando nel corpo della balena-Venezia, come uno di quei naviganti abili a raccontare mirabolanti storie ed avventure, de Seta ci ricorda la «mossa del cavallo» di uno studioso che ha sparigliato le carte sostenendo che il quadro raffigura in realtà i bombardamenti cui fu sottoposta Padova da parte delle artiglierie imperiali nel 1509. Durante il viaggio, compaiono le gigantesche figure dell’arte che sono Venezia, anche quando non la dipingono: Tiziano che, come Michelangelo, era nella leggenda già da vivo, e il cui colore è all’origine del mito della pittura veneziana in Europa; Tintoretto che con il suo «schioppettio cromatico » prese assai rapidamente il posto di Tiziano; i vedutisti Canaletto, Guardi e Bellotto, che resero sublime l’uso della camera oscura, e appaiono qui come protagonisti di una singolare piéce teatrale, in dialogo con i loro e i nostri contemporanei che di loro si sono occupati. Una navigazione affascinante nel corpo di una città unica, con una sorpresa finale -il ritrovamento alla British Library di Londra di un meraviglioso libro sulla marineria veneziana- che sembra fatta apposta per rendere omaggio al creatore di Moby Dick.

Cesare de Seta, storico dell’arte e dell’architettura, è professore emerito dell’università di Napoli “Federico II”, ha insegnato all’École des Hautes Études en Sciences Sociales a Parigi e in altre sedi all’estero. Tra i molti volumi, tradotti in diverse lingue, si segnalano i più recenti Ritratti di città. Dal Rinascimento al secolo XVIII (Einaudi, 2011), L’Italia nello specchio del Grand Tour (Rizzoli, 2014); tra i romanzi Era di maggio (1991), La dimenticanza (1994), Terremoti (2003), finalista al Premio Strega, Quattro elementi (2007). Ha curato mostre in Italia e all’estero: tra le ultime Imago Urbis Romae (Musei Capitolini, Roma, 2005) e L’immagine della città europea (Museo Correr, Venezia, 2014). Scrive per riviste specialistiche italiane e straniere, e collabora a La Repubblica e a L’Espresso.


INTERVISTA A CESARE DE SETA, DOMENICA 5 MARZO 2017 (a cura di Luca Balduzzi)

Perché le viene da associare Venezia a Moby Dick?
Rileggendo da adulto il romanzo di Herman Melville, più di una volta ho pensato a Venezia, ad esempio quando l’autore descrive tutti i tipi di cetacei che si incontrano negli oceani sconfinati, quando ci mostra l’apparire all’orizzonte e lo scomparire tra i flutti della balena bianca. L’ho riletto ancora una volta, nell’impeccabile traduzione di Giuseppe Natale, e nel capitolo Sulle raffigurazioni mostruose delle balene a un certo punto ho avuto l’improvvisa percezione che Venezia, nelle sue iconografie più antiche, rassomigli a una balena, con la coda al sestiere di Castello. Misteriosa e inafferrabile come la balena bianca con cui Ahab mette in gioco il suo destino. Anche Venezia è una città-destino e a me così piace immaginarla, immersa nel Mediterraneo con i suoi tentacoli-isole.

Che cosa ricorda del suo primo incontro con Venezia? Che impressione le aveva lasciato la città?
Per quanti sforzi abbia fatto, io non ricordo la prima volta che ho visto Venezia. Probabilmente da bambino, tornando dalla montagna, dove si andava con la famiglia per almeno due settimane in agosto. Il primo incontro con Venezia non fu per me decisivo: troppe cose mi sfuggivano, non entravano nelle capacità percettive del mio cervello da bambino.

Conoscere e studiare Venezia e la sua storia ha contribuito a modificare quella sua prima impressione?
Molto, perché Venezia è un microcosmo del mondo. Ci sono tornato da adolescente e poi da giovane studente di architettura. Giunsi a Venezia da solo, ora consapevole di Venezia per quel po’ che sapevo e avevo letto, e fui preso da uno stato di stordita ebrezza. Si andava in giro,c come capitava, che è poi l’unico modo che io conosca per conoscere una città. Anzi penso sia l’unico modo per imparare Venezia, perché in questo mallo conviene muoversi seguendo il proprio istinto, guidati solo dalla propria curiosità di vedenti.

All’interno del libro cita molti autori e studi che si sono occupati di Venezia… chi/quali, secondo lei, sono riusciti a comprendere e a raccontare nel migliore dei modi lo spirito di Venezia?
E’ una domanda imbarazzante, ma le bibliografie minime a ciascuncapitolo dicono a chi vanno le mie preferenze di studioso.

Gli artisti veneziani che hanno dipinto/rappresentato Venezia occupano un capitolo importante all’interno del libro… quali sensibilità trova più affini alla propria?
Certamente Giorgione e i vedutisti, in particolare Bernardo Bellotto. Li metto in scena in Andar per vedute (il primo capitolo della seconda parte del libro, ndr). Credo in modo del tutto inusuale, una piéce che potrebbe andare in scena al Teatro Goldoni.

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