A confronto sull’euro (e la sua crisi) – Intervista a Marco Della Luna

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Marco Della Luca
Cimit€uro-Uscirne e risorgere
(2012)
Euroschiavi-Dalla truffa alla tragedia (quarta edizione)
Casa editrice Arianna

Marco Della Luna, avvocato e saggista, studioso di politica economica, noto conferenziere, partecipa spesso a trasmissioni televisive e radiofoniche, e a importanti eventi a livello nazionale.


INTERVISTA A MARCO DELLA LUNA, DOMENICA 10 AGOSTO 2014 (a cura di Luca Balduzzi)

L’introduzione di una moneta comune per tutti gli Stati membri dell’Unione Europea, sotto la responsabilità di un istituto bancario comune, era veramente il solo primo passo possibile verso quella successiva unione anche politica (gli “Stati uniti d’Europa”) immaginata già da Eugenio Colorni, Ernesto Rossi ed Altiero Spinelli fin dal Manifesto di Ventotene del giugno del 1941?
L’introduzione dell’Euro oramai si può chiaramente comprendere come una tappa di un percorso di sostituzione, guidata dall’altro, di un modello socio-economico-costituzionale di un tipo con uno di un tipo opposto. La corrispondente linea di riforme, iniziata alla fine degli Anni ’70, è quella economico-finanziaria, e punta essenzialmente a difendere e tutelare gli interessi dei creditori finanziari con sacrificio degli altri interessi sociali e dei lavoratori, a trasferire tendenzialmente tutto il reddito dai produttori-lavoratori (economia reale) ai detentori-produttori del capitale finanziario, monetario. Il modello di sviluppo keynesiano, caratterizzato dallo Stato che corregge il mercato e fa investimenti anti-ciclici per evitare la recessione e assicurare l’occupazione, al prezzo di una costante, fisiologica inflazione (come mostra la Curva di Phillips), viene sostituito con un modello da alcuni ritenuto hayekiano, ma che tale non è perché F. Von Hayek voleva non solo il libero mercato come unico regolatore dell’economia, ma anche uno Stato che tenga il mercato libero dai monopoli e che si astenga dall’assistenzialismo sociale e imprenditoriale. Il modello economico-finanziario imposto all’UE fa per contro tutto questo, anzi in esso i grandi monopoli bancario-finanziari dettano la politica degli Stati e dell’Unione.
Il detto modello raggiunge lo scopo della tutela degli interessi dei creditori-finanziari mediante alcuni principali strumenti: indipendenza-irresponsabilità delle banche centrali dai parlamenti, vincoli di bilancio pubblico (proibizione della spesa pubblica antirecessiva), stretta monetaria, compressione salariale (e della domanda interna) per assicurare un pareggio o un surplus della bilancia estera, socializzazione delle perdite delle banche. Quando la politica economica è affidata ai banchieri centrali, che, per statuto, deliberano e operano non solo in autonomia ma nella segretezza e nella irresponsabilità, la democrazia rappresentativa è finita, il consenso popolare è superato. Il risultato -prevedibile e inevitabile perché facente parte degli obiettivi- è la deflazione, la disoccupazione, l’avvitamento fiscale, la recessione o stagnazione, che ora si prospetta pure per la Germania.
La Costituzione italiana del 1948 è, per contro, esplicitamente keynesiana: l’Art. 1 fonda la Repubblica sul lavoro, non sul capitale, e numerose altre norme riconoscono al lavoro (all’occupazione, alla produzione, agli investimenti) il primato assoluto e la funzione di perequazione sostanziale tra i cittadini; quindi essa è in opposizione radicale e inconciliabile col modello politico-economico costitutivo dell’UE e della BCE, che si basa sulla priorità alla prevenzione dell’inflazione (primaria minaccia per le rendite finanziarie), e per prevenirla impone l’austerità, cioè innanzitutto l’astensione dagli investimenti pubblici anti-ciclici per uscire dalla recessione – sicché la recessione perdura, diviene strutturale e non accidentale.
La storia della c.d. integrazione europea, dietro la mascherata idealistica, è in realtà la storia della sostituzione di un modello socio-economico-istituzionale con un modello opposto, ossia dei valori sociali e produttivi, fondanti per la democrazia elettiva e la legittimità costituzionale, col loro contrario: parassitismo finanziario e autocrazia. E’ la storia di un’inversione non dichiarata, che è avanzata di soppiatto, sotto il camuffamento di ideali sbandierati e mai attuati di solidarietà integrazione dei popoli, identità comune, di promesso sviluppo che non arriva mai. Un’inversione di cui oramai sentiamo fortemente gli effetti pratici, anche se molti di noi non sanno da che cosa provengano, e pensano che le cause siano la corruzione o l’evasione o l’articolo 18.

Nel nostro paese, la ratifica del Trattato di Maastricht del 1992 non è stata accompagnata dallo stesso dibattito, politico e non, che ha tenuto banco in altri paesi (Danimarca e Gran Bretagna su tutti)… avremmo dovuto procedere con una cautela maggiore, chiedendo anche noi ulteriori garanzie? Quali, per esempio?
La nostra classe dirigente, come dimostra la trasversalità dei consensi a Maastricht, a Lisbona, al Six Pack, al Fiscal Compact, alle riforme di Monti e a quelle di Renzi -cioè a tutte le scelte nocive per l’interesse dell’economia nazionale-, era collusa con gli interessi finanziari che guidavano questa linea di trasformazione. Collusa in cambio del mantenimento dei privilegi di casta, che appunto l’UE continua a garantirle. Ha quindi nascosto all’opinione pubblica il fatto che molti economisti, sin dagli Anni ’70, avevano predetto, in base a logica ed esperienze pregresse, che una moneta comune europea, o meglio un sistema di blocco dei cambi e di vincoli di bilancio, avrebbe prodotto la deindustrializzazione dei paesi periferici, e che in generale non poteva funzionare perché paesi che hanno economie di tipo diverso, rapporti import-export diversi, livelli di efficienza diversi, livelli di indebitamento e inflazione diversi, e che stanno in fasi cicliche diverse, hanno anche bisogno di cambi valutari diversi, tassi di interessi diversi, spesa pubblica diversa. L’errore è stato intenzionale pianificato.
Lo scopo, per quanto riguarda l’Italia, era di privarla di liquidità al punto che fosse costretta a svendersi ai capitali stranieri e ad adattarsi al ruolo di area coloniale di lavoro poco qualificato e poco remunerato, inserito nel ciclo industriale germanico e al suo servizio. Un paese di operai e camerieri, con dirigenza straniera. L’obiettivo è pressoché raggiunto.

Secondo alcuni, ben prima della crisi economica e finanziaria del 2008, già l’introduzione di parametri di convergenza identici per tutti gli Stati membri dell’Unione Europea, così differenti fra loro in termini di debito pubblico, prodotto interno lordo e tasso d’inflazione, avrebbe contribuito a rallentare lo sviluppo di alcuni paesi e ad alterare/rovesciare equilibri…
Ovvio. Il blocco dei cambi -cioè l’euro- come si era già sperimentato con lo SME, impedendo il fisiologico aggiustamento dei cambi che ristabilisce l’equilibrio della bilancia commerciale, produce flussi di capitali, di aziende e dal paese meno efficiente a quello più efficiente, cioè dall’Italia alla Germania, con lo’effetto di peggiorare ulteriormente l’efficienza-competitività del primo e di migliorare ulteriormente quella del secondo. I parametri di convergenza in realtà servivano e sono serviti ad ampliare le divergenze e a stabilire così rapporti di potenza e di egemonia-sfruttamento dei paesi più forti su quelli più deboli.

Quanto questa situazione ha contribuito ad aggravare le conseguenze che la crisi ha avuto su alcuni paesi, e sull’Europa in generale?
E’ stata decisiva e ha prodotto una tendenza irreversibile, in Italia soprattutto grazie al governo Monti, che ha fatto in modo che la recessione si consolidasse e divenisse incurabile: questo è il pilota automatico. I banchieri franco-tedeschi avevano compiuto attività di prestito predatorio sia verso la Spagna che verso la Grecia, erogando molto credito, indebitandole fortemente e al contempo generando bolle (immobiliare in Spagna, di spesa pubblica in Grecia), anche grazie alle consulenze di Goldman-Sachs (per cui son passati Prodi, Draghi, Papademos, Monti e altri). Quando poi le bolle sono scoppiate, i medesimi banchieri-predatori hanno imposto che l’Unione assicurasse loro il pagamento degli interessi sui loro fraudolenti prestiti, chiedendo soldi ai paesi membri.
Così l’Italia ha dovuto prendere a prestito denaro sul mercato speculativo al 7% di interesse per prestarlo alla Spagna al 3%. Un atto politico da alto tradimento.

Aumenta ogni giorno di più il numero delle persone che invoca l’uscita del proprio paese dalla moneta comune, per potere ristabilire la propria sovranità monetaria e bancaria… una scelta di questo genere sarebbe veramente possibile?
Sì, sarebbe possibile sia giuridicamente (con diverse legittimazioni) che economicamente. Dall’euro si potrebbe uscire anche individualmente. In tal caso, i debiti ora denominati in euro sarebbero convertiti automaticamente della nuova moneta nazionale. L’ideale sarebbe che questa moneta fosse emessa direttamente dagli Stati, senza emissione di debito pubblico, ossia che gli Stati stampassero moneta. Da una parte, vi sarebbe una certa svalutazione -circa il 30%- e un certo (ma minore) rincaro delle importazioni; dall’altra parte, questa svalutazione porterebbe a un boom delle esportazioni e alla contrazione delle importazioni, il che ridurrebbe questa svalutazione nell’arco di qualche mese, come già avvenuto anche nel 1992 dopo l’uscita dallo SME, che fu gestita in modo criminale dalla politica del tempo, con gravissimi danni per la nazione e per i conti pubblici, ma che portò rapidamente a una ripresa economica.

Secondo alcuni (l’ex presidente della Confindustria tedesca Hans-Olof Henkel, l’economista George Soros, ecc.), una strada differente da percorrere potrebbe essere quella della separazione dell’euro in due…
Concordo. L’ideale sarebbe che uscissero dall’euro i paesi più forti, in modo da limitare i contraccolpi sugli scambi internazionali e da facilitare un sano riaggiustamento dei cambi.

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