Attacco alla Siria, ovvero regalare il Medio Oriente a sauditi e terroristi

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31 ago – E’ il 1990 quando la giovane kuwaitiana Nayirah racconta di aver aver visto i soldati iracheni «strappare i bambini dalle incubatrici per lasciarli morire sul pavimento». Indignazione mondiale, rafforzata dalla conferma di Amnesty International. Quanto basta a George Bush per scatenare la prima guerra contro Saddam. Poi, a cose fatte, si scopre che quella testimonianza era falsa, inventata di sana pianta: i soldati iracheni non avevano mai allungato le mani sui neonati. Peggio: la giovane “testimone” Nayirah al-Sabah era in realtà la figlia dell’ambasciatore kuwaitiano, e aveva «recitato un pezzo preparato dalla società di comunicazione Hill & Knowlton, ingaggiata dall’emirato per favorire la liberazione del paese». Ancor più celebre, ricorda il condirettore di “Geopolitica”, Daniele Scalea, è il caso delle “armi di distruzione di massa” attribuite all’Iraq, cioè il casus belli la seconda Guerra del Golfo, nel 2003. Un copione che ricorda quello di oggi a Damasco: gli ispettori Onu che non trovano prove e Washington che punta sull’uso unilaterale della forza.

Nonostante il solenne discorso di Colin Powell alle Nazioni Unite – in cui arrivò ad agitare in pubblico una “fialetta di antrace” – Russia e Cina non si Nayirah al-Sabahfidarono della parola di Washington, «e col senno di poi ebbero ragione». Stesso film nel 2011 in Libia, con la denuncia di genocidio: Gheddafi avrebbe fatto bombardare manifestazioni pachifiche dell’opposizione. Altro falso clamoroso: «Non si trovarono i segni di questi presunti bombardamenti, né furono mai presentate delle prove». Per giorni, tuttavia, le televisioni furono invase dalle immagini delle “fosse comuni” approntate da Gheddafi; poi, in sordina, la precisazione: erano semplici scavi per tombe, in un cimitero di Tripoli. Identica montatura nel 1999 per l’attacco alla Jugoslavia dopo il presunto “genocidio” contro gli albanesi del Kosovo, con almeno 10.000 vittime, secondo Washington. Più tardi, cioè fuori tempo massimo, la verità storica raccontò ben altre cifre: forse «qualche centinaio di civili», in tutto.

L’esperienza recente, avverte Scalea, dovrebbe dunque indurre a prendere con le pinze le affermazioni odierne sull’uso d’armi chimiche, il 21 agosto, da parte del regime siriano. E attenzione alle cifre, come in ogni casus belli: secondo le fonti dei ribelli, i morti sarebbero stati circa 1300 morti, cioè grossomodo il bilancio di sangue dell’ultima ondata di repressione in Egitto, secondo “Human Rights Watch” «il più grave episodio d’uccisioni extragiudiziarie di massa nella storia dell’Egitto moderno». Al Cairo, a cadere sono stati per lo più civili disarmati, mentre in Siria «è in corso una vera e propria guerra tra milizie armate, in cui spesso è difficile distinguere il civile dal combattente». Di fronte a due casi molto simili, se non altro per il numero di vittime, la reazione della comunità nordatlantica (per non parlare di quella delle monarchie arabe) è stata molto differente: «Per la Siria si è a un passo dall’intervento armato perché la situazione è giudicata Egitto, la sanguinosa repressione della rivolta islamistaintollerabile». Per l’Egitto, invece, «si è fatto ricorso più che altro a condanne verbali e poche misure pratiche di rappresaglia».

Brillante, come sempre la posizione dell’Unione Europea che «alla fine ha rinunciato persino a varare un pieno embargo sulla vendita di armamenti, riducendolo all’equivoco divieto di fornire all’Egitto “armamenti utilizzabili per la repressione interna”, il che significa «non vendere fucili, ma fornire bombardieri, caccia e altri strumenti sofisticati». Il caso siriano è più eclatante per l’uso dei gas tossici? «Eppure, il medesimo effetto di uccisione indiscriminata lo si può ottenere – come dimostrato in Egitto – anche con le normali armi da fuoco, piazzando cecchini sui tetti e sugli elicotteri». Inoltre, pochi mesi fa la procuratrice dell’Aja, Carla Del Ponte dichiarava che, a quel momento, le uniche prove d’utilizzo di armi chimiche in Siria allora raccolte puntassero il dito non contro il regime di Assad, ma contro i ribelli. «Il vero discrimine, dunque, sembra essere questo: che il regime del Cairo è gradito, mentre quello di Damasco non lo è».

Le motivazioni dell’ostilità verso il regime siriano sono abbastanza note, continua Scalea: in primo luogo, a pesare è la sua alleanza con l’Iran. «Tanto i paesi della Nato quanto quelli arabi del Golfo (eccezion fatta per l’Iraq post-Ba’th) sono desiderosi di privare Teheran dell’appoggio siriano, in particolare dopo che il maldestro intervento statunitense in Iraq ha portato Baghdad, da irriducibile nemico dell’Iran qual era, ad avvicinarsi al vicino persiano». Oggi, una sorta di asse corre dall’Iran fino al Mediterraneo, passando per l’Iraq a predominio sciita, la Siria a predominio alawita e il Libano in cui a predominare è la coalizione cristiano-sciita comprendente “Ḥizb Allāh”, cioè Hezbollah. «Non a caso, le tensioni settarie eruttate nella guerra civile siriana, oltre a richiamare numerosi combattenti dall’estero (in particolare islamisti sunniti unitisi ai ribelli), ha finito per traboccare nei due paesi vicini: in Libano e in Iraq la tensione interna sta tornando alta, favorita Siria, miliziani anti-Assadanche dalla recrudescenza d’attentati dinamitardi il cui fine, qualsiasi sia la matrice, è senza dubbio spingere a uno scontro armato inter-settario».

Il problema di fondo, in Siria? E’ difficile fidarsi degli aspiranti sostituti di Bashar Assad. “Jabhat an-Nuṣrah”, una delle più attive componenti della ribellione contro il regime di Damasco, «si è fatta notare per le posizioni radicali islamiste e varie atrocità belliche, tanto che pure gli Usa, la Gran Bretagna e altri paesi l’hanno inserita nell’elenco delle “organizzazioni terroriste”». In Iraq, i sunniti che sostengono la ribellione siriana «coincidono in certa misura con quelli che sostenevano la lotta armata contro la presenza di truppe della coalizione guidata da Washington». In Libano, oltre al pericoloso diffondersi di movimenti radicali sunniti, anche la famiglia Hariri – capofila dei sunniti “moderati” ostili a Hezbollah – ha profondi legami con l’Arabia Saudita, «patria e centro di diffusione del wahhabismo, l’interpretazione purista dell’Islam da cui nasce il moderno fenomeno dei cosiddetti “salafiti”, i killer di Al-Qaeda. «Il pericolo, dunque, non è solo la destabilizzazione regionale che promana dalla crisi siriana, ma anche la possibilità che alle fazioni sciite filo-iraniane se ne sostituiscano altre sunnite e filo-saudite non meno ma più minacciose per l’Occidente».

La Siria degli Assad, “nemico” di oggi, fino all’altro ieri era un paese alleato dell’Occidente, capace di collaborare con l’Europa e persino con Israele: alla fine degli anni ’70, ricorda Scalea, Hafez Assad (il padre di Bashar) intervenne militarmente in Libano per sostenere il governo cristiano-maronita contro le milizie palestinesi. «In una tragica anticipazione di Sabra e Chatila, nel 1976 le milizie cristiane espugnarono e distrussero il campo profughi di Tel al-Zaatar, uccidendo migliaia di rifugiati palestinesi». Nel 1990, sempre Hafez Assad inserì la Siria nella coalizione anti-irachena guidata dagli Usa, e «dagli anni ‘90 la Siria ha tenuto colloqui di pace con Israele». In tempi più recenti, aggiunge il condirettore di “geopolitica”, Damasco ha addirittura cooperato con le “extraordinary renditions” della Cia, «prestandosi alla detenzione e all’interrogatorio di sospetti estremisti islamici». Quindi: se oggi Washington, Parigi e Londra dovessero rovesciare Assad, «avranno non solo il problema di trovare qualcuno che lo sostituisca – cosa non facile nella variegata opposizione siriana, e col paese di fatto Bashar e Hafez Assaddiviso in tre (tra governativi, ribelli e curdi) – ma pure qualcuno che non sia peggio da gestire, ai loro occhi, dell’attuale presidente siriano».

«Curiosamente», le tre potenze occidentali paiono sul punto di schierarsi con un’opposizione in cui la componente islamista è molto forte, quella siriana, proprio mentre i partiti islamisti attraversano una fase difficile in Nordafrica: il governo dei Fratelli Musulmani è stato rovesciato dai militari in Egitto, e non si può escludere che qualcosa di simile avvenga pure in Tunisia. In realtà, sottolinea Scalea, non c’è contraddizione: «Secondo la più classica e antica delle strategie, quella del divide et impera, la vera minaccia da evitare è il crearsi di una potenza egemone in tutto il mondo arabo (o peggio musulmano). Se la marea islamista rifluisce in Nordafrica, si può farla montare in Siria senza temere di creare un interlocutore troppo forte per essere controllato».  Chi davvero potrebbe sorridere, pienamente soddisfatta, sarà forse l’Arabia Saudita, il grande forziere petrolifero degli Usa, da cui dipende la stabilità del dollaro: «All’inizio del 2011 Riyad difendeva disperatamente e invano il regime di Mubarak in Egitto, vedeva traballare i governi amici in Giordania e Bahrein, era a sua volta alle prese con proteste e disordini interni».

La situazione è oggi radicalmente diversa: l’Arabia Saudita è intervenuta militarmente in Bahrein per reprimere la rivolta pacifica contro l’emiro, ha appoggiato la caduta dell’odiato Gheddafi in Libia e ha visto i Fratelli Musulmani, suoi rivali in campo islamista, venire sconfitti in Egitto ad opera di una giunta militare «che si è affrettata a ricoprire d’oro». Ora potrebbe soffiare la Siria all’Iran – e, se ciò accadesse, è facile che anche il Libano scivoli verso la sfera d’influenza saudita – insediando al potere un nuovo regime da cui difficilmente i salafiti potrebbero rimanere esclusi. Paradossalmente, conclude Scalea, il grande movimento della “primavera araba” non solo non ha rafforzato le correnti laiche e progressiste (i governi secolari sono stati i più colpiti dalle proteste e dalle rivolte, né liberali e socialisti sono riusciti a brillare nelle successive elezioni), ma alfine nemmeno gli islamisti più “moderati” e “democratici” (che pure hanno vinto le elezioni, ma sono ostacolati nell’opera di governo dalle opposizioni e dallo “Stato profondo” legato al vecchio regime). I veri vincitori? «Rischiano d’essere i salafiti e le correnti più radicali dell’Islam politico».

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