DEA, APCEA, OCI, ANP, ONU, OLP, CEE, UNESCO = EURABIA

Per estirpare il male, bisogna conoscere le cause.

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Il declino dell’Europa ebbe inizio con la crisi petrolifera del 1973 per la colpevole ambizione dei francesi, i quali in seguito al loro antiamericanismo, progettarono di costruire un asse geopolitico e ideologico alternativo appunto a quello americano e atlantico. In pochissimo tempo, l’Europa ha sacrificato la sua indipendenza politica, in quanto ogni Paese aderente fa quello che vuole, nessun Paese fa veramente quello che deve o dovrebbe, ma tutti e 27, partecipano alla spartizione di quella che si può definire una torta alla panna, senza base, senza fondamenta, senza i suoi valori culturali e spirituali, che sono, checché ne diciate, le sue radici giudaico-cristiane, le fondamenta della nostra civiltà, radici purtroppo ripudiate dopo oltre 2000 anni e rinnegate di proposito, per arruffianarsi e genuflettersi verso i Califfi dei paesi islamici, in cambio solo, di false e ipocrite promesse nonché di garanzie illusorie, contro il terrorismo oltre a vantaggi economici che alla lunga si dimostreranno purtroppo non solo svantaggi.

Il saldo è negativo, il bilancio è drammatico. Questa politica, questa scelta suicida da parte dell’Europa di ripudiare le proprie radici giudaico-cristiane, ha condotto, conduce e condurrà sempre più alla mancata integrazione degli immigrati musulmani, se non altro per effetto di una dichiarata arrendevolezza e consentirà il proliferare di cellule terroristiche islamiche in tutto il continente, con il conseguente stravolgimento della sua identità culturale, religiosa ed etica.

E’ arrivato il momento di riappropriarsi dell’autentica eredità spirituale, di quei sacri valori di umanità che l’Europa, anche nei momenti più bui della sua storia, ha sempre cercato di preservare.

Al centro della civiltà islamica fin dalle origini, la jihad è una dottrina elaborata secondo un preciso schema legale e religioso da giuristi e teologi musulmani che distingue il territorio dell’islam, in cui esso regna, dal territorio della guerra popolato dagli infedeli, nel quale la guerra è obbligatoria finché essi rifiuteranno di riconoscere la sovranità islamica.

Il terzo territorio, sempre degli infedeli, i quali ottengono, in cambio del pagamento di tributi, la provvisoria cessazione delle ostilità, impegnandosi inoltre a non ostacolare l’espansione dell’islām. I nostri politici alle prese con la crisi economica, con la disoccupazione ed il precariato, ascoltano sbalorditi i pezzi grossi dell’Unione Europea, responsabili delle loro sventure, invocare, un ulteriore aumento delle quote di immigrati dimenticando di informarne i propri elettori di questo gravissimo problema, i quali non provano né entusiasmo né serenità, di fronte ai quotidiani e raccapriccianti episodi di violenza a cui purtroppo si stanno abituando, insieme al degrado e all’insicurezza. Se ve ne fosse ancora la necessità, occorre ancora una volta ricordare che non tutti i musulmani sono terroristi, ma niente è più vero che, tutti i terroristi sono musulmani.

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Oltre il 30% degli ospiti nelle carceri italiane, sono immigrati, di cui oltre il 60% sono islamici, il cui costo di soggiorno di questi “poverini” è di 800 euro al dì cadauno per lo Stato italiano. Anche se è vero che ci sono dei musulmani che condannano il terrorismo, come nel recente attentato di Munbay, la maggioranza dei musulmani si nutre delle concezioni dell’islam più radicale, mentre altri fingono di ignorarle. Ma per quanti ne costituiscano il bersaglio, sarebbe un suicidio negare la realtà di tale minaccia e l’indottrinamento delle popolazioni musulmane da parte dei loro leader religiosi che rappresentano i 56 stati islamici e l’ANP, tutti rappresentati in seno all’OCI (Organizzazione della Conferenza Islamica). A testimonianza, vi sono le elezioni palestinesi del gennaio 2006, le quali hanno dimostrato che la democrazia si riveste dei colori islamici e guerrafondaisti non solo a Gaza.

L’ossequiosità dell’Europa e la sua politica tesa ad indebolire Israele, a screditare gli USA ed occultare le persecuzioni dei cristiani in terra islamica non contribuiscono certo ad arginare quest’odio, che ha le sue radici nella loro storia e nella loro tradizione. La jihad, infatti, è il cuore della storia e della civiltà islamica e le prescrizioni giuridiche della stessa, conoscono una nuova fioritura sotto l’impulso di guide come lo sceicco Yusuf ’al-Qaradhawi, leader spirituale dei Fratelli Musulmani e del Consiglio Europeo per la Fatwa e la Ricerca, o lo sceicco Muhammad Sayyid ’Al-Tantawi, grande imam-rettore dell’Università di Al-Azhar del Il Cairo in Egitto. Questi giuristi sono convinti e purtroppo convincono i musulmani, che la guerra dichiarata a Saddam Hussein nel 2003 costituisca un attacco degli infedeli alla totalità della comunità islamica, e ricordano che le leggi della jihad prescrivono, in tali situazioni, il reclutamento di tutti i musulmani. Inoltre, il Centro di Ricerca Islamica di Al-Azhar ha pubblicato un comunicato, approvato dal suo imam-rettore, Al-Tantawi, in cui si sottolinea che la jihad diviene un obbligo personale per ogni musulmano non appena una terra islamica viene attaccata, “altrimenti la nostra nazione musulmana subirà una nuova crociata scatenata contro la sua terra, l’onore, la fede e la patria” e insegna, che ai musulmani è lecito combattere anche in altri paesi contro i non musulmani che disapprovano o disprezzano la religione islamica o i suoi seguaci .

Quest’appello alla jihad è venuto anche dal gran muftì di Siria, il quale ha invitato i musulmani, ovunque essi siano, a usare tutti i mezzi possibili per ostacolare questa aggressione, comprese le azioni suicide contro gli invasori americani, britannici e sionisti. Ovunque l’ideologia della jihad ed i suoi precetti non siano stati respinti, i musulmani impostano le proprie relazioni con i non musulmani alla luce del quadro concettuale della jihad e nonostante i numerosi appelli alla jihad lanciati dalle capitali islamiche e, talora più discretamente, da quelle europee, pochi occidentali ne realizzano la portata. Occorre quindi dire, che gli analisti ingannano deliberatamente l’opinione pubblica, adducendo il pretesto delle Crociate per porre su di un piano di parità morale i musulmani e il cristianesimo e placare i legittimi timori degli europei. Fingono di ignorare che la jihad, in quanto ideologia e prassi, è esistita ininterrottamente per quattro secoli già prima delle Crociate, in Asia, Africa ed anche in Europa

. Il cosiddetto DEA, Dialogo Euro Arabo, che sarebbe meglio chiamarlo Accettazione della Dhimmitudine Europea, impose la soluzione del conflitto israelo-palestinese come condizione imprescindibile per un’autentica cooperazione euro-araba e condannò ripetutamente Israele. Raccomandò inoltre il sorgere di un movimento di opinione paneuropeo favorevole agli arabi, e invocò speciali condizioni per l’accoglienza degli immigrati musulmani in Europa, auspicando che i governi europei facilitassero la partecipazione dei lavoratori arabi e delle loro famiglie alla vita culturale e religiosa araba, (se notate, si parlava sempre e solo di Arabo/a, mai di islam). Insistettero molto sulla «cooperazione negli ambiti della cultura e della civiltà», incoraggiando in particolare lo studio dell’arabo e delle lingue europee e la creazione di istituzioni culturali euro-arabe.

«Eurabia» non è solo il nome coniato Bat Ye’or per definire l’Europa e che da il titolo al suo bellissimo saggio Eurabia, tantomeno la parola che Oriana ha preso in prestito per meglio descrivere l’Europa di oggi, ma è in realtà, il titolo di un periodico pubblicato a Parigi in quegli anni, il quale diffuse tra l’opinione pubblica europea la propaganda palestinese, in linea con le decisioni prese alla Conferenza de Il Cairo del 1969 che sostenute da potenti lobby politiche ed economiche, inaugurarono la politica del riavvicinamento euro-arabo.

Nel numero 2 del luglio 1975, «Eurabia» riportava le risoluzioni approvate all’unanimità dall’assemblea generale dell’APCEA (Associazione Parlamentare per la Cooperazione Euro-Araba, Strasburgo 7-8 giugno 1975). Associazione creata appositamente, che riuniva oltre 200 Parlamentari dei 9 (allora) Stati dell’Europa occidentale, in rappresentanza di tutti i partiti dell’arco costituzionale dei diversi Paesi. Ciò significa che il consenso sul programma di intesa euro-araba era trasversale all’intero scacchiere politico europeo e tale e quale è tuttora. «Eurabia» il periodico, riprendeva le tesi arabe, e «la necessità di un’intesa politica tra l’Europa e il mondo arabo come base per gli accordi economici» e deplorava che essa fosse stata trascurata fino ad allora ed insisteva poi, sul dovere da parte dell’Europa, di «comprendere gli interessi politici ed economici del mondo arabo».

Il DEA, il Dialogo Euro- Arabo doveva esprimere «una volontà politica comune» e la dimensione politica pregiudiziale a tutti gli accordi economici con i paesi della Lega Araba esigeva la nascita in Europa «di un movimento d’opinione» favorevole agli arabi, il loro tenore era: ”Se vogliono realmente cooperare con il mondo arabo, i governi europei e i loro leader politici hanno il dovere di protestare contro la campagna denigratoria degli arabi in atto nei loro organi di informazione. Devono riaffermare la loro fiducia nell’amicizia euro-araba e il loro rispetto per il millenario contributo dato dagli arabi alla civilizzazione universale”.

Le esigenze politiche arabe rispetto alle condizioni del Dialogo non si limitavano quindi al solo Israele: riguardavano anche l’Europa. Il delegato Belga Declerq, asseriva che la «cooperazione economica euro-araba doveva essere il frutto di una volontà politica. Doveva quindi riconoscere gli aspetti politici di tale cooperazione». In altri termini, gli scambi economici erano subordinati al sostegno della CEE alla guerra araba contro Israele. A proposito dell’Europa, il delegato belga Declerq, auspicava una cooperazione economica attuata mettendo in comune le risorse arabe di manodopera e di materie prime – petrolio – con le tecnologie europee.

Secondo Declerq, il reimpiego dei petrodollari doveva favorire l’interdipendenza tra l’Europa occidentale e i paesi arabi, così da «arrivare gradualmente a un’integrazione economica il più completa possibile». Ma l’integrazione economica euro-araba sarebbe rimasta un fatto teorico se non fosse stata attuata la parte politica dell’accordo, ossia il sostegno europeo alla lotta araba contro Israele. «Quindi – ribadì Declerq – occorre che alla base dei progetti di collaborazione vi sia una reale volontà politica, che deve manifestarsi a tre livelli: a livello nazionale, a livello europeo, a livello mondiale». In questa prospettiva, di Declerq, la cooperazione e la solidarietà euro-arabe dovevano realizzarsi tramite le organizzazioni e le conferenze internazionali, esattamente come è sempre avvenuto. Egli auspicava lo svolgimento di incontri preparatori comuni e convegni euro-arabi, esattamente come avviene, che dovevano «moltiplicarsi a ogni livello – economico, monetario, commerciale ecc. – così da arrivare a posizioni comuni». Le sue proposte furono inserite in forma integrale nelle risoluzioni dell’APCEA, l’Associazione Parlamentare per la Cooperazione Euro Araba, riunita a Strasburgo il 7-8 giugno 1975, e la sezione politica delle risoluzioni investiva tre ambiti: la politica europea nei confronti di Israele, la creazione di un movimento d’opinione paneuropeo e mondiale favorevole agli arabi, l’accoglienza in Europa degli immigrati musulmani. A proposito di Israele l’associazione si allineava alle posizioni arabe e pretendeva il ritiro di Israele alle linee d’armistizio del 1949, in aperto contrasto con la risoluzione 242 dell’ONU.

L’Associazione esigeva inoltre dai governi europei il riconoscimento dell’OLP come unico rappresentante degli arabi palestinesi, come poi in effetti è avvenuto, punto fondamentale che l’Europa doveva imporre nelle iniziative internazionali di sua competenza previste dalla politica comune euro-araba.

La CEE doveva costringere Israele a riconoscere i diritti della nazione palestinese e l’esistenza di uno stato palestinese su tutta la riva ovest del Giordano e a Gaza. A livello europeo, l’APCEA chiedeva un’informazione favorevole alla causa araba, esattamente come è avvenuto e speciali condizioni per gli immigrati ed una modifica delle disposizioni legali relative alla libera circolazione, e il rispetto dei diritti fondamentali dei lavoratori immigrati in Europa: questi diritti devono essere equiparati a quelli dei cittadini europei, esattamente come è avvenuto.

L’APCEA considerava la soluzione politica del conflitto israelo-arabo una necessità imprescindibile per la nascita di un’autentica cooperazione euro-araba. Nello stesso paragrafo, l’APCEA esprimeva la convinzione che «l’armonioso sviluppo della cooperazione tra l’Europa occidentale e la nazione araba» avrebbe tratto giovamento dalla libera circolazione delle idee e delle persone. La risoluzione economica condannava quelle scelte politiche che avevano: arrecato danno alla cooperazione euro-araba, quali la creazione dell’AIE (Agenzia Internazionale dell’Energia) e la firma di un accordo tra la CEE e Israele prima della conclusione dei negoziati tra la CEE e i paesi arabi. A questo proposito, l’APCEA chiese formalmente che la cooperazione economica tra la CEE e Israele non si estendesse ai territori occupati.

Le risoluzioni votate dall’APCEA a Strasburgo riprendevano quelle approvate dalla conferenza preparatoria, tenutasi a Damasco qualche mese prima (14-17 settembre 1974). Sul piano culturale, l’APCEA prendeva atto del debito dell’Europa nei confronti dell’islam e del suo patrimonio etico, «riconoscendo il contributo storico della cultura araba allo sviluppo europeo, e sottolineando l’apporto che i paesi europei possono ancora attendersi dalla cultura araba, in particolare nell’ambito dei valori umani», e invocava lo sviluppo dell’insegnamento della lingua e della cultura araba in Europa, «auspicando che i governi europei concedano ai paesi arabi larghi mezzi per favorire la partecipazione dei lavoratori immigrati e delle loro famiglie alla vita culturale e religiosa araba».

L’APCEA faceva appello alla stampa, ai media, ai gruppi di collaborazione ed al turismo per migliorare l’immagine del mondo arabo agli occhi dell’opinione pubblica europea, chiedendo ai governi dei nove di affrontare con spirito costruttivo gli aspetti culturali del Dialogo Euro-Arabo e di accordare una più accentuata priorità alla diffusione della cultura araba in Europa; chiedendo ai governi arabi di riconoscere le implicazioni politiche di una cooperazione attiva con l’Europa sul piano culturale; invitando i gruppi nazionali dell’APCEA a intensificare in ogni paese CEE gli sforzi necessari per realizzare gli obiettivi formulati a Damasco e a Strasburgo e pregandoli di comunicare al Segretariato dell’APCEA i risultati ottenuti.

La risoluzione si concluse con una condanna e un’accusa nei confronti di Israele: Pur riconoscendo il diritto all’esistenza dello stato di Israele, condanna la volontà sionista di sostituire, nel territorio palestinese, la cultura ebraica a quella araba, per privare il popolo palestinese della sua identità nazionale; considerando che, con gli scavi effettuati nei luoghi santi dell’islām (il Monte del Tempio) – zona occupata da Gerusalemme – malgrado gli avvertimenti dell’UNESCO, Israele ha commesso una violazione del diritto internazionale; considerando che tali scavi non potevano non comportare l’inevitabile distruzione di alcune testimonianze della cultura e della storia araba; si rammarica che la decisione dell’UNESCO di non ammettere Israele nel suo Ufficio Regionale sia stata talora gestita con grande mancanza di obiettività.

Nello stesso numero di «Eurabia», due economisti cristiani palestinesi, Bichara e Naim Khader, sottolineano che la cooperazione euro-araba riguardava ben 29 paesi, (attenzione 29 Paesi, quanti sono adesso? 27 i prossimi sono Turchia ed Egitto) e che il suo successo esige identità di vedute i tutti i campi. Deplorando le diverse linee politiche adottate da alcuni paesi nei confronti del Medio Oriente, gli autori dimostrano che gli interessi dell’Europa e del mondo arabo sono in contrasto con quelli degli Stati Uniti, e che il Dialogo Euro-Arabo avrà successo solo se l’Europa adotterà una politica del tutto indipendente da quella americana. Per loro, questo implica che le personalità impegnate nel rafforzamento delle relazioni euro-arabe all’interno dei diversi organi del DEA non debbano essere né filoamericane, né filoisraeliane.

Il DEA è il frutto di una volontà politica comune che si è manifestata ai massimi livelli e che ha per oggetto l’instaurazione di speciali relazioni tra i due gruppi. Le due parti rammentano che il dialogo ha origine negli scambi intercorsi tra loro alla fine del 1973, comprendenti in particolare la dichiarazione fatta dai nove stati membri della Comunità Europea il 6 novembre 1973 a proposito della questione mediorientale, ma anche la dichiarazione rivolta ai paesi dell’Europa occidentale dalla VI Conferenza al vertice dei paesi arabi, svoltasi ad Algeri il 28 novembre del 1973.

È chiaro quindi che l’adesione della CEE alla politica araba nei confronti di Israele ha costituito fin dall’inizio la base del DEA, in conformità alla Dichiarazione di Algeri. In campo economico il DEA aveva l’obiettivo «di creare le premesse fondamentali per lo sviluppo della totalità del mondo arabo, e di ridurre il gap tecnologico che separa i paesi arabi da quelli europei».

Tra gli innumerevoli ambiti di cooperazione indicati nel memorandum, vengono citati le tecnologie nucleari, la finanza, le banche, la gestione dei capitali, la ricerca scientifica, lo sviluppo tecnologico, la formazione professionale e tecnica, l’impiego dell’energia nucleare, le infrastrutture necessarie per i trasporti, il genio civile, l’urbanizzazione, la sanità, l’istruzione, le telecomunicazioni, lo sviluppo degli agglomerati urbani, delle strutture collettive e del turismo. L’addestramento del personale specializzato per la gestione dei numerosi progetti sarebbe stato realizzato «o inviando équipe di esperti europei nei paesi arabi, per formarvi la manodopera locale, o inserendo tale manodopera nelle strutture dei paesi della CEE.

Erano inoltre previsti «un’efficace cooperazione e scambi di informazioni tra università arabe ed europee» in merito ai diversi metodi di ricerca, programmi e progetti. «Cooperazione nel campo della Cultura e della Civiltà» specifica che il DEA doveva «avvicinare le due civiltà che hanno ampiamente contribuito ad arricchire il patrimonio culturale dell’umanità». La cooperazione in tali ambiti avrebbe incluso «l’istruzione, le arti, le scienze e l’informazione», per consolidare e approfondire le basi della comprensione culturale e dei punti di contatto intellettuali tra i due popoli.

A tale scopo furono previste diverse misure, tra cui la creazione di un’istituzione culturale comune euro-araba, scambi di esperti, l’instaurazione di rapporti nel campo dell’istruzione e del turismo, l’incentivo a studiare le lingue europee e quella araba. I problemi dei lavoratori immigrati e delle loro famiglie, infine, dovevano essere risolti con l’uguaglianza di trattamento in materia di impiego, condizioni di vita e lavoro, regimi di previdenza sociale.

La crescita del terrorismo palestinese negli anni 1970-80 e il lassismo delle polizie europee negli anni in cui fu ideata ed elaborata questa politica, rivelano chiaramente che essa fu in gran parte motivata dalla paura di un mondo arabo ostile. Ma questa strategia compiacente si univa anche al desiderio di un’interdipendenza economica e politica euroaraba, libera da ogni interferenza americana. Dopo oltre tre decenni, qual è stato l’impatto sul continente europeo di questa strategia che cementa in un unico blocco, legato al mondo arabo, settori in origine indipendenti quali l’economia, l’immigrazione, la politica e la cultura? Il DEA non ha forse favorito la realizzazione nei paesi della CEE dei piani per l’immigrazione musulmana e lo sviluppo della cultura araba in Europa elaborati in quel periodo dagli organi direttivi della Lega Islamica Mondiale.

Di fatto, il destino dell’Europa e la sua evoluzione nel lungo periodo si sono giocati in quegli anni, dando luogo a quegli sviluppi tortuosi e irreversibili al compimento dei quali oggi assistiamo. A partire dagli anni ’70, le politiche europee sull’immigrazione furono assoggettate all’obiettivo del DEA, imposto dagli stati arabi e dalle loro lobby in Europa: fondere le due sponde del Mediterraneo in una civiltà comune. Ecco perché il DEA progettò l’inserimento massiccio e omogeneo di interi gruppi di immigrati provenienti dal Sud nel tessuto laico europeo. Questi immigrati, che nel giro di oltre tre decenni sono diventati oltre sessanta milioni, anche se i dati ufficiali parlano di neanche 20 milioni, non venivano per integrarsi.

In quest’ottica il DEA mise l’accento sulla diffusione più ampia possibile in Europa, sotto l’egida di istituzioni e centri culturali euro-arabi, della lingua e della cultura araba, e sull’insegnamento dell’arabo ai figli degli immigrati. Al contrario di quanto si potrebbe pensare, la penetrazione culturale islamica in Europa non è dovuta solo all’immigrazione di milioni di musulmani, provenienti dall’Africa, Medio Oriente ed Asia, che portano con sé la propria cultura sotto lo stendardo del multiculturalismo, ma è anche l’espressione di una deliberata scelta della CEE. L’esortazione a salvaguardare le tradizioni degli immigrati veniva da due fonti, la prima delle quali era costituita dagli interessi dei leader politici e religiosi musulmani, ansiosi di mantenere il controllo sui loro connazionali come strumenti di pressione politica e al tempo stesso di diffusione della da‘wah nei paesi d’accoglienza.

Questa concezione ha le sue radici nell’islam tradizionale: da sempre la compenetrazione sociale tra musulmani e non musulmani, e l’adozione da parte dei primi di leggi e usanze straniere, è, se non addirittura bandita, quantomeno rigorosamente vietata dalla shari’a, ed ha generato una capillare giurisdizione, in vigore in tutto il dar al- islam sin dagli inizi della colonizzazione islamica. Come emerge dalle discussioni del vertice di Lahore e da numerosi altri testi al riguardo, i capi di stato musulmani e i loro leader spirituali guardavano agli immigrati come ad un contingente islamico in Europa, da consolidare e inquadrare nelle reti dei centri culturali arabi per impedire che si diluisse nella società lassista e dissoluta degli infedeli, esattamente il contrario del multiculturalismo e dell’integrazione.

Furono gli accordi del DEA, ossia i compromessi tra i governi europei, coordinati dalla Commissione della CEE, a costituire il secondo quadro di riferimento di una migrazione di massa intesa a ricreare in Europa le proprie strutture sociali e religiose, tradizionalmente ostili alle altre culture sul tema. I mezzi e le forme di cooperazione per la diffusione in Europa della lingua araba e della sua civiltà letteraria un invito a istituire nelle capitali europee, d’intesa con i paesi islamici, centri per la diffusione della lingua e della cultura araba. Una di esse prevedeva l’inserimento negli istituti e nelle università europee di professori arabi specializzati nell’insegnamento agli europei. Questa misura si spiega con il divieto per i non musulmani di insegnare l’islām, ancor oggi in vigore nei paesi musulmani. Un’altra implicava il «coordinamento degli sforzi fatti dai paesi arabi per diffondere la lingua e la cultura araba in Europa e per trovare forme adeguate di cooperazione tra le istituzioni arabe operanti in questo settore».

I partecipanti chiesero la creazione di centri culturali euro-arabi gemellati nelle capitali europee, finalizzati alla diffusione della lingua e della cultura araba. Chiesero il sostegno delle istituzioni europee, di tipo universitario e non, «interessate all’insegnamento della lingua araba e alla diffusione della cultura araba e islamica». Sollecitarono l’aiuto dei governi per «progetti di cooperazione culturale tra istituzioni europee e arabe, in materia di ricerca linguistica e insegnamento della lingua araba agli europei».

L’esortazione a nominare, nelle istituzioni e nelle università europee, professori arabi che insegnino la loro lingua agli europei è ripetuta nello stesso documento e, praticamente, in tutti quelli degli anni successivi. Quest’insistenza, più volte ribadita, sulla necessità di affidare agli arabi questo insegnamento, mira a tenere l’interpretazione islamica della civiltà araba al riparo da ogni intrusione o critica da parte dei kuffar, e a custodirne l’efficacia ai fini della da‘wah. Questa politica ha di fatto istituito il controllo dei musulmani sull’insegnamento della storia, ma anche di altre discipline ed ha determinato l’orientamento filopalestinese e antioccidentale delle università europee, introducendovi una prospettiva islamica estranea alla loro cultura.

È strano, che i docenti universitari europei, la cui professione consiste appunto nell’insegnamento della lingua e della civiltà islamica, abbiano deliberatamente accettato di essere definiti incompetenti nel proprio ambito professionale, e si siano volontariamente fatti da parte per permettere a colleghi stranieri di insegnare le loro stesse discipline nelle università e nelle istituzioni europee.

Altra raccomandazione prevede che l’insegnamento dell’arabo sia collegato alla cultura arabo-islamica e alle tematiche arabe attuali e «la necessità di cooperazione tra specialisti europei e arabi per presentare in modo oggettivo agli studenti e al pubblico europeo colto la civiltà arabo- islamica e le problematiche arabe contemporanee che potrebbero forse attirarli verso gli studi arabi». Per realizzare una perfetta armonia tra le università arabe ed europee, i partecipanti proposero stage per i professori europei nei paesi arabi. Le risoluzioni successive definiscono le forme di cooperazione tra le università arabe ed europee e i loro rispettivi esponenti, ma anche di gestione dei fondi necessari a questo progetto di arabizzazione dell’insegnamento all’interno della CEE.

L’ultima mozione, «la nascita di un comitato permanente di esperti arabi ed europei, incaricati di controllare l’attuazione delle decisioni relative alla diffusione della lingua e della cultura araba in Europa, nel quadro del Dialogo Euro-Arabo». Il Seminario di Venezia non solo spianò la strada a un’immigrazione araba e musulmana su vasta scala in Europa, ma pianificò anche la nascita di una cultura comune in grado di abbracciare le due sponde del Mediterraneo.

La speranza nella redenzione della decadente Europa ad opera dell’islām, unita ad alcune correnti giudeofobiche cristiane, portò a interpretare come una vittoria cristiana la futura distruzione di Israele per mano islamica. Questo movimento, formato da religiosi, universitari, intellettuali e opinionisti, accompagnò, inquadrò e sostenne le politiche di immigrazione musulmana pianificate dai governi della CEE, così come le attività del DEA. L

’espansione dei mercati europei nei paesi arabi fu sincronizzata con l’arrivo nella CEE di milioni di immigrati musulmani, le cui esigenze religiose, culturali e sociali erano tutelate dalle più alte autorità dei paesi europei di accoglienza. Il 23 aprile 1976, sotto la presidenza di Valéry Giscard d’Estaing, il primo ministro francese Jacques Chirac emanò il colpo di grazia, un decreto che consentiva il ricongiungimento degli immigrati alle loro famiglie. Il decreto Chirac sancì la natura permanente e definitiva dell’immigrazione.

Dall’incontro del 1975 a Il Cairo, che enunciava i principi generali e gli scopi del DEA, emerse che la cooperazione euro-araba apriva nuovi orizzonti a tutti i livelli: politico, economico, sociale e culturale. Esso chiarì che il principale obiettivo della cooperazione in campo culturale era «consolidare e approfondire le basi della comprensione culturale e dell’affinità intellettuale» tra le due regioni. E, in effetti, la diffusione della lingua e della cultura araba, specialmente nelle università, conobbe uno slancio unico nella storia, integrandosi in modo organico con la politica generale del DEA, ordinata, finanziata e sostenuta dai governi euro-arabi.

Perfino ai tempi della colonizzazione, l’emigrazione europea verso le colonie procedette a ritmi molto più lenti. Anche dopo circa due secoli, le sue cifre, discendenti compresi, non ammontavano che a un’esigua frazione del numero di immigrati musulmani presenti oggi nei paesi europei e occidentali dopo tre soli decenni. Un tale spostamento di popolazioni in un periodo così breve non avrebbe potuto verificarsi senza l’approvazione esplicita di tutti i capi di stato e di governo della CEE e del DEA, la struttura istituzionale da essi creata, che lo appoggiò e neutralizzò le opposizioni. Avendo incoraggiato questa rapida espansione musulmana, i governi europei dovettero affrontare i problemi correlati dell’alloggio e dell’impiego.

Facendo eco alle preoccupazioni dei paesi del Maghreb per i problemi abitativi e occupazionali dei loro concittadini che lavorano in Europa, l’11 dicembre 1978, nel corso dell’incontro di Damasco, il DEA adottò una dichiarazione congiunta sui principi che devono regolare le condizioni di vita e di lavoro degli immigrati nelle due regioni. La dichiarazione, in 14 punti, insiste sull’uguaglianza economica tra i cittadini dei paesi ospiti e i lavoratori immigrati, e il diritto di tali lavoratori alla rappresentanza legale e alla formazione professionale per sé e per i loro figli. I testi del DEA parlano di reciprocità, ma si tratta di una clausola puramente teorica, in quanto nessun paese arabo avrebbe mai concesso l’uguaglianza economica e giuridica a milioni, di immigrati europei che si fossero stabiliti presso di loro, poiché l’ha rifiutata per oltre un millennio – e ancor oggi la rifiuta – alle sue minoranze indigene, residui dei popoli precedenti alla colonizzazione musulmana.

Così, a partire dagli anni ’70, le politiche migratorie, correlate agli scopi politici del DEA imposti dagli stati arabi e dalle loro lobby europee, non riguardavano un’immigrazione sporadica, fatta di individui desiderosi di integrarsi nei paesi di accoglienza. La nuova immigrazione non aveva niente a che vedere, sul piano politico, economico e culturale, con le domande di asilo politico presentate, prima del 1989, dagli esuli in fuga dai paesi comunisti, né con le successive ondate di lavoratori italiani, spagnoli e portoghesi giunti dalle aree europee economicamente meno sviluppate. Nessuno di questi flussi migratori, infatti, si sviluppò in un quadro di richieste ideologiche e politiche paragonabile a quello del DEA.

L’ambizione di congiungere le due sponde del Mediterraneo attraverso una cultura comune indusse a pianificare l’ingresso nel tessuto sociale europeo di masse compatte e omogenee di immigrati provenienti da Sud, che, in due decenni, divennero milioni. Immigrati venuti non per integrarsi, ma con il diritto di imporre ai cittadini dei paesi ospiti la loro civiltà. La politica del DEA si sposava perfettamente con la strategia espressa dal vertice islamico di Lahore e sintetizzata nel progetto dei Fratelli Musulmani. P

er riassumere: la colpa non è dei francesi, del belga Declerq, del DEA Dialogo euro-Arabo, dell’APCEA Associazione Parlamentare Cooperazione Euro-Araba e di tutti i parlamentari, Ministri e Governi di quel periodo che hanno scambiato noi, la nostra terra, la nostra cultura, storia e la nostra civiltà con questi beduini per poco più di un barile di petrolio, ma la vera colpa è di Voi tutti, si Voi, che consapevoli di tutto questo non fate nulla pur essendo ancora in tempo, per fermare l’olocausto della civiltà occidentale.

Un sincero ringraziamento a Bat Ye’or per questo illuminante studio.

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