Dalla Libia alla Siria, identikit del “nuovo islam” che vuole il potere

Mentre la persistenza delle Intifade arabe del 2011 continua a manifestarci la sua indefessa potenzialità di produrre cambiamento sistemico – la caduta di Gheddafi, nonostante il suo fantasma riappaia a intermittenza, è l’ultimo anello di una catena che non ha sicuramente esaurito la capacità di agganciare maglie (il prossimo forse sarà Bashar al Assad?) – quello che sembra sempre più prospettarsi come futura realtà dei sistemi politici arabi è il sorgere di un nuovo nazionalismo islamista.

In Egitto i Fratelli Musulmani appaiono tra le formazioni politiche meglio pronte a reggere la competizione elettorale prevista con buona probabilità per novembre; in Tunisia il partito islamico Al-Nahda (“Il rinascimento”), all’interno della futura assemblea costituente, è senza dubbio il partito con più chances di guidare l’agognata transizione per farla approdare, prima o poi, a qualche nuova sintesi politica; in Libia il Comitato nazionale di transizione (Cnt) ha dichiarato che la sharia,
la legge islamica, sarà alla base del nuovo Stato.

Se ripercorriamo la storia recente del mondo arabo, questa rapida conformazione della realtà politica, una volta messi fuori gioco i dittatori e custodi del vecchio ordine, non è poi così sorprendente: a partire dagli anni 70 del XX secolo, infatti, i movimenti islamisti – più e meno radicali – hanno inaugurato faticose campagne di proselitismo, crescendo all’interno delle realtà nazionali arabe e imponendosi nella struttura dei vari sistemi politici come la principale forza di opposizione al potere. Tali forze di ispirazione islamica, indipendenti dai regimi politici, sia nelle repubbliche basate sul socialismo e la laicità dello Stato, sia nelle monarchie che pure trovavano nell’Islam il fondamento della legittimità del potere, hanno rappresentato la più forte sfida alle pratiche autoritarie illiberali e coercitive con cui le élites politiche si assicuravano la continuità del potere. Se andiamo a guardare i programmi politici di partiti – legali o no – e delle organizzazioni a referenza islamica, dal Mediterraneo al Golfo Persico, dai Fratelli Musulmani d’Egitto al gruppo islamico Jeddah dell’Arabia Saudita, ci potrebbe sembrare di leggere una carta di principi delle forze politiche progressiste dell’Europa degli anni 70: eguaglianza di sessi, equità socio-economica e politiche redistributive, protezione dei diritti civili e delle libertà individuali e protezione dei diritti umani.

I gruppi a referenza islamica nel mondo arabo hanno, in altri termini, rappresentato negli ultimi trent’anni l’unica e vera voce di protesta contro il clientelismo, la corruzione e la cleptocrazia delle élites autoritarie arabe mentre molti attivisti hanno pagato con la prigione, la tortura o l’eliminazione fisica le loro attività di proselitismo.

Questa dimensione dell’Islam nel mondo arabo – sempre strategicamente celata in primis dai regimi arabi che si sentivano da essi minacciati, e secondariamente dalle distorsioni demonizzanti che il terrorismo di matrice islamista e le grossolane semplificazioni occidentali hanno dato di questa religione – ci testimonia una realtà molto meno scontata di quanto la si possa
comunemente rappresentare – soprattutto da parte di noi occidentali – eppure non meno potenzialmente insidiosa: l’Islam ha tentato, in primo luogo, di imporsi sulla scena politica come forza alternativa al nazionalismo arabo, strumento di coesione sociale fondato sul dato etnico (e non confessionale) tramite cui i regimi arabi hanno acquisito il controllo dello spazio pubblico a partire dall’emancipazione coloniale degli Stati. Il successo del nazionalismo arabo, che si è fondato sostanzialmente sulla lotta contro l’irredentismo israeliano, è stato sfruttato dai governanti arabi come mezzo di legittimazione del potere.

L’Islam, invece, nelle organizzazioni della società civile (partiti politici o organizzazioni di varia natura) è stato sempre temuto e oppresso in quanto non coincidente con la misura di un mondo che aveva fondato la sua identità sul concetto di “arabità” e in opposizione alle vicine potenze mediorientali a referenza islamica: la Turchia, che richiamava alla memoria la dominazione ottomana per le genti arabe e l’Iran a partire dal 1979, anch’esso non privo di ambizioni egemoniche sul mondo arabo.

Ma nello stesso tempo l’Islam è stato anche il bacino di confluenza di tutte le orme di opposizione politica che hanno rifiutato la gestione del potere attraverso la corruzione e la cleptocrazia. Nell’Islam hanno in sostanza trovato rifugio anche i giovani diplomati, i laureati, gli imprenditori frustrati e non assorbiti dal network di privilegi arbitrari del potere politico.

Se guardiamo agli ordini professionali in Egitto, per esempio, ci possiamo chiedere perché mai tutti i giovani professionisti egiziani voterebbero per i Fratelli Musulmani? La risposta è in realtà molto semplice: questi giovani, che hanno una visione moderna dell’organizzazione della vita pubblica, non hanno mai trovato spazio in una società dove il personalismo ha sempre
prevalso sulla meritocrazia e dove chi non era con il regime era contro il regime.

Ma se guardiamo a tutto il mondo arabo, all’interno di questo Islam emergente si celano in realtà diverse anime: alcune estremamente conservatrici, il cui approdo politico ideale sarebbe la creazione di uno Stato islamico, altre più in grado di conciliarsi – anche grazie al confronto con un contesto più liberale – con i vincoli della modernità politica e del pluralismo, come
testimonia il caso di al-Nahda in Tunisia.

Marina Calculli

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