Volenterosi senza memoria… e volontà

Volenterosi senza memoria

Un prezzo pagato da Kiev per soddisfare ambizioni di grandezza altrui

di Giuseppe Romeo – Probabilmente non sarà sfuggito anni fa, nel 2004, nelle librerie un piccolo saggio di Robert Kagan dal titolo Of Paradise and Power: America and Europe in the New World Order (Paradiso e Potere: America e Europa nel Nuovo Ordine). Un saggio di poco più di 170 pagine, che seguiva un articolo apparso su «Policy Review» nel 2002 con il titolo Power and Weakness, scritto in modo agevole come si addice a un columnist del «The Washington Post» oltre ad essere stato alle dipendenze del Dipartimento di Stato per la Difesa tra il 1984 e il 1988, e probabilmente diretto più al pubblico europeo che a quello americano. Questo per due ordini di motivi.

Il primo, perché Kagan era ed è l’espressione migliore nel divulgare quella prospettiva neoconservatrice che ha contraddistinto le presidenze americane da George Walker Bush jr e durata sino a Biden. Il secondo, perché Kagan si antepone quale principale sostenitore di una visione critica sia della deriva dell’Ue, ritenuta miope e troppo convinta di poter fare la differenza in un mondo di fatto sempre più competitivo, sia della sicurezza statunitense di poter assumere una politica egemonica da potenza quasi indiscussa e senza limiti, capace di imporre proprie regole senza tener conto di come e in che misura i termini stessi di potenza sarebbero ben presto cambiati se non si fossero determinate nuove condizioni per definire altrettanto nuovi termini di relazione tra Europa e Stati Uniti.

Tutto questo, messo in campo in un periodo di non semplici relazioni tra Ue e Stati Uniti dovute non solo alle crisi economiche del momento, ma anche al rischio di una possibile riduzione dell’impegno americano in ambito atlantico e alla certezza, se non velleitarismo europeo, di poter procedere verso una politica di difesa e una politica estera dotata di una propria capacità. Una visione che considerava, tuttavia, ancora centrale il ruolo degli Stati Uniti rispetto a quello europeo nella costruzione di un nuovo ordine capace di arginare le pretese russe di ridefinire la propria politica estera ritagliandosi nuovi spazi di iniziativa e di contenere lo slancio economico e geopolitico cinese. Una prospettiva che si è poi ben espressa in maniera quasi freudiana in quel lapsus della signora Kagan, ovvero in quel «fuck you-EU» di cui la memoria a breve termine dei volenterosi si è ben presto disfatta credendo di poter ancora sostenere proprie scelte dopo aver accettato di seguire acriticamente quelle di un alleato che ha mutato il proprio orizzonte degli interessi.

Oggi si potrebbe dire che il piccolo saggio di Kagan dovrebbe rappresentare proprio quel punto di partenza per comprendere come e in che termini si manifesteranno le relazioni tra Washington e Bruxelles. Quest’ultima assurta a capitale di fatto di un’entità che mutua se stessa in una dimensione onirica di possibile Stato, mentre Parigi, Berlino e Varsavia giocano con proprie carte senza preoccuparsi del futuro della Ue e Londra, dalla comoda posizione di membro non più Ue ma atlantico spera di assumere di fatto la guida dell’Alleanza.

In Paradiso e potere, Kagan afferma che gli americani vengono da Marte e gli Europei da Venere. Una considerazione per la quale l’approccio assertivo degli Stati Uniti, nell’esprimere una propria capacità dettata dalla supremazia militare, si coniugherebbe con una Unione europea simbolo di un soft power tutto proprio, di una debolezza funzionale costruita su valori che tenderebbero a porla come guida di un mondo neoliberale cui gli Stati Uniti di oggi sembrano voler rinunciare.

L’idea di Kagan è che l’era della stabilità politica e strategica sotto l’egemonia statunitense, che aveva permesso all’Unione europea di separare in larga misura la politica economica dalle considerazioni di sicurezza, volgerebbe al termine della sua esperienza storica ponendo l’Unione sul piano di una orfana di se stessa per aver rinunciato non solo a dotarsi di una buona dose di realismo politico ma, in particolare, di non aver compreso che gli Stati Uniti perseguono un proprio national interest. In tutto questo, si nasconde la vera anima degli Stati Uniti e di un realismo che oggi prevale rispetto a ogni minima possibilità di sacrificare in nome di ideali difficilmente realizzabili sul terreno a condizioni economiche e strategiche date, la possibilità di ricostruire una supremazia a stelle e strisce nel mondo caduta in crisi con la presidenza Biden.

In questa dimensione andrebbero lette le compulsive scelte di leader europei esclusi dal tavolo di un nuovo dialogo tra grandi potenze. Un dialogo dove il soft power dell’Ue non fa e non farà la differenza.

Di fronte a queste considerazioni la stessa intervista rilasciata da Macron a TF1 sembra voler cambiare narrazione dove riconosce che, alla fine, nei negoziati non voluti dagli stessi volenterosi, Kiev sarà costretta a dover cedere dei territori. Se a Minsk si fossero messi d’accordo forse Kiev poteva negoziare al meglio e senza perdere ciò che perderà domani.

Ma Macron è il presidente di una Francia orfana da tempo di un Napoleone (per fortuna) e di un De Gaulle (ahi loro), costretto ad ammettere oggi la necessaria cessione di territori. Una dichiarazione pone Macron su un piano di scarsa credibilità anche quando si pone come colui che sarebbe l’unico, per differenza da quella Nato, a poter offrire una capacità di hard power. Una proposta che è però diretta a mantenere la force de frappe francese (il deterrente nucleare dell’ “Hexagone” per intenderci) che potrebbe essere dislocabile anche nelle basi di paesi alleati (come Nato o alleati diretti della Francia?), quali la Polonia in primis e poi altri volenterosi. Una proposta sagace che, volenterosamente, fa sì che Parigi cerchi una sorta di burden sharing nucleare precisando che la Francia non pagherà però per loro sicurezza di chi deciderà di usufruirne.

In altre parole, ogni Stato che si affiderà alla capacità nucleare francese (ammesso che abbia una qualità di deterrenza credibile) dovrà contribuire al mantenimento. Una proposta di sicuro che farebbe arrossire un qualunque stratega da pub che servirebbe a Parigi a mantenere un arsenale nucleare, per quanto minimo, ma costoso e che rappresenterebbe un buon passo per mettere in discussione la sopravvivenza della Nato e i rapporti con gli Stati Uniti. Una scelta che permetterebbe a questi ultimi, in particolare, di dire agli europei “bene, fate da soli” affidando a Parigi, in ambito Ue, e a Londra, per quanto riguarda la Nato ( essendo il Regno Unito depositario di una propria capacità nucleare) i destini dei popoli europei, cui il dramma di due grandi conflitti allargati e recenti conflitti minori, ma non per questo meno violenti, sembra non sia ancora bastato considerato che per gli europei di oggi la memoria ha solo geografia – a volte anche errata – mentre dovrebbe avere anche coscienza.

D’altra parte, memoria o non memoria, la storia chiede dov’erano i volenterosi nel 2008, nel 2014 a Minsk o a Istanbul o il giorno dopo il 22 febbraio 2023 quando avrebbero dovuto e potuto manifestare la volontà di fermare la crisi invece di alimentarla giorno dopo giorno, nel pensare che possa esistere una Europa senza Russia compiacendo gli interessi di un alleato che ben presto avrebbe cambiato idea.

In tutto questo, però, c’è una verità di fondo che per gli Stati Uniti e per la Federazione russa è sin troppo chiara, meno agli stessi europei. E, cioè, che l’Unione europea teme lo scontro, anche se fosse come Nato, perché pur nella convinzione di poter vincere militarmente, non sarebbe disposta a pagare il prezzo di una vittoria comunque distruttiva. Una vittoria possibile, che condannerebbe i popoli del continente a un inverno quotidiano per secoli, mentre la Russia, o ciò che ne resterebbe, nelle sue profondità asiatiche, avrebbe spazio e risorse per sopravvivere e ricominciare a vivere.

Ciò significa, tradotto nei termini di negoziato possibili, che il conflitto terminerà quando Putin avrà raggiunto tutti gli obiettivi. Obiettivi che, se si fossero considerate le richieste russe nel dicembre 2021, erano limitati e “limitabili”. Una considerazione che andava fatta tempo fa, che avrebbe fatto comprendere che la Federazione russa raggiungerà tutti gli obiettivi posti a premessa e quelli riconsiderati man mano che il costo del conflitto è aumentato in termini di impegno economico e di perdite umane. E, in questo senso, non si vedono, altre soluzioni che possano garantire all’Europa una prospettiva credibile di pace per i prossimi anni. E, tutto questo, nella speranza che un riassetto multipolare possa far sì che l’Ue possa e sappia ritagliarsi nuovamente uno spazio di influenza basato soprattutto sulla propria forza culturale.

Il rilancio, cioè, di un’idea solenne cannibalizzata per far comodo a una oligarchia finanziaria, impoverita da una omologazione culturale nei costumi e nella partecipazione che ha privato d’anima i popoli europei. Insomma, ci vuol ben altro che una coalizione senza memoria di volenterosi per salvare ciò che resta dell’Ue e della stessa Nato, la cui volontà è contaminata di ipocrisie di metodo oltre che di pensiero.

Questo, dal momento che ben altri tempi, modi e capacità avrebbero dovuto essere messi in campo per dare un significato di sincerità pragmatica a ciò che non si è voluto vedere e a ciò che per miope, se non colpevole mancanza di umiltà, si è fatto pagare al popolo ucraino.

Un prezzo pagato da Kiev per soddisfare ambizioni di grandezza altrui costruita senza fare i conti proprio con quella memoria storica e con quelle grandezze geografiche, e geopolitiche, che oggi presentano fatture da saldare senza possibilità di sconto nei prossimi mesi e nei prossimi anni.
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