Regno di Sardegna, 1814–1861. Una “questione” ancora aperta? Intervista al prof. Casula

Regno di Sardegna 1860

Il Regno di Sardegna, 1814 – 1861. Una “questione” ancora aperta?
La storia che non ci hanno narrato…
Intervista al professor Francesco Cesare Casùla*

Se si vuol capire il problema identitario sardo-italiano che investe la storia, la politica, la cultura, la società e perfino l’economia isolana bisogna fare una premessa senza la quale non si capisce il passato, il presente e il futuro di noi abitanti di qualsiasi parte del mondo. E cioè: «… è più importante la “cosa” o il “nome” con cui chiamiamo la “cosa?”». Ovviamente, se ci pensiamo bene, è la “cosa” più importante in assoluto, indipendentemente da come la identifichiamo e la chiamiamo.

Adesso, applichiamo il concetto all’istituzione di base più importante dell’uomo: lo Stato, quell’entità istituzionale formata dal territorio in cui vive ed opera con proprie leggi (popolo, territorio e vincolo giuridico). Come nasce? Quando nasce? Come si comporta? Quali sono i suoi tratti identificativi? Tutti mutevoli senza che lo Stato ne soffra. E fra questi mutevoli c’è il “Nome”.

Tutta questa premessa serve per dire che lo Stato di cui siamo tutti cittadini, insulari e peninsulari, è sempre lo stesso da quando è nato a Cagliari il 19 giugno 1324. Si è sviluppato e modificato costituzionalmente, sebbene nel corso del tempo abbia cambiato il nome tre volte (in realtà, quattro). Se fra cent’anni, in un’Europa modificata il nostro Stato cambiasse ancora il nome e si dovesse chiamare, per esempio, Federal Euritalia, non cambierebbe il fatto che abbia avuto in passato Carlo Alberto o Mussolini o Mattarella o ora noi stessi.

Nel marzo 1861 il nome del Regno di Sardegna fu modificato in Regno d’Italia. Come e a che scopo?
Il cambio del nome allo Stato, da Regno di Sardegna a Regno d’Italia la domenica 17 marzo 1961 (come dice la storiografia corrente prendendo per tale il titolo araldico di Re d’Italia dato a Vittorio Emanuele II), non lo fece il nuovo Parlamento formato dai rappresentanti di tutti gli ex Stati della Penisola (per appurarlo basta leggere gli Atti parlamentari del 1861), non lo fece il Re, che pure era il titolare dello Statuto (detto Albertino) il quale, essendo una legge fondamentale di tipo ottriato, elargita come atto unilaterale dalla sua volontà sovrana e che, per questo, poteva essere modificata da lui, lo fece, invece… un tipografo (sic!) che, nella testata della Gazzetta numero 68 del lunedì 18 marzo 1861 scrisse per la prima volta: Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia.
Lo scopo era ed è nobile, perché tutto il cosiddetto Risorgimento si era basato sull’idea di abbattere gli Stati preunitari e di formare un unico Stato peninsulare e insulare da rinominare Regno d’Italia. Da qual momento tutta la storia pregressa non è più quella dello Stato sardo unificatore ma quella della Penisola unificata dagli Etruschi in poi).

Crede che sia necessario restituire una dignità scientifica alla storia della Sardegna e la conoscenza delle proprie “radici”, fondamentali per la rinascita dell’Isola?
Non è una questione di rivendicazione identitaria sarda, ma una questione di scienza universale, a condizione però che la storia sarda sia trattata istituzionalmente e non regionalmente, e che si passi dalla tradizionale Storia della Sardegna di valore puramente locale alla Storia di Sardegna di valore universale. In altre parole: a livello storiografico generale non hanno importanza le nostre “radici” ma il fatto che le nostre “radici” sono le “radici” dello Stato che oggi ci governa, senza le quali esso non esisterebbe.

Nel 1847 lo Stato divenne “unitario”, una fusione che fece cessare la carica vice regia e il Parlamento sardo. Nel 1848 11 rappresentanti sardi furono eletti nel Parlamento chiamato Subalpino con sede a Torino. Il Regno di Sardegna ne divenne una parte marginale e trascurata. E nacque la “questione sarda”… che attualmente sembra durare ancora.

Il 29 novembre 1847 i sardi isolani, tramite alcuni rappresentanti degli stamenti parlamentari, in cambio di poche agevolazioni fiscali, chiesero spontaneamente al Re Carlo Alberto di rinunciare alla propria statualità federale per fondersi con gli Stati di terraferma.
La concessione della fusione fu comunicata dal Re al viceré a Cagliari Gabriele De Lunay con Regio Biglietto datato Torino, 20 dicembre 1847.

La fusione, o perfetta fusione, è l’evoluzione logica e naturale di un processo di sviluppo associativo fra Stati “eguali”. Non è, perciò, un’annessione ma un atto di volontà cosciente da entrambe le parti interessate, con cui si annullano le distinzioni interne federative e si trasforma lo Stato da composto in unitario o semplice, senza più confini interni, avente ora un solo popolo, un unico territorio e un solo potere pubblico: esecutivo, legislativo e giudiziario.

Riferito alla nostra storia, è errato, per esempio, parlare di perdita di autonomia della Sardegna nel 1847 con la “Perfetta fusione”, perché l’Isola, allora, costituiva il fisico del Regno insulare di Sardegna, cioè di uno Stato che, in quanto tale, non poteva essere autonomo, mentre invece era sovrano e viveva in forma federativa paritaria col Principato di Piemonte, il Ducato di Savoia e la Contea di Nizza. In cambio, si sarebbe potuto chiedere un’autonomia amministrativa; ma non lo facemmo. E il dibattito sul chiederla e perché chiederla, sul come chiederla e come gestirla ha creato la cosiddetta “Questione sarda” durata ottantasette anni, che nemmeno l’istituzione della Regione Autonoma della Sardegna nel 1948, col suo Statuto speciale, ha quietato.

Qual è il suo pensiero sull’attuale Repubblica italiana in senso giuridico e sociale. L’Italia si può definire una Nazione?
L’unica volta che mi sono affacciato alla politica attiva ho militato nel Partito Repubblicano al tempo di Giorgio La Malfa e poi di Giovanni Spadolini, presentandomi addirittura candidato al Senato nel giugno del 1987 per la Xª legislatura, senza venire eletto. Quindi, sono un repubblicano convinto, ed ho collaborato per sette anni con un Presidente della Repubblica in veste di consigliere culturale. Questo non toglie che non abbia qualche riserva sulla struttura giuridica e sociale dell’attuale nostro Stato. Ma il discorso sarebbe troppo lungo ed impossibile da riassumere in questa breve intervista.

Per quanto riguarda la Nazione è altrettanto difficile riassumere il concetto. Per Nazione s’intende una collettività umana i cui membri hanno un idem sentire, ovverosia la coscienza di una comunanza di fattori aggregativi anche pre giuridici o post giuridici (ovvero, prima che la collettività si costituisca in Stato o dopo che lo Stato sia finito). La Nazione, quindi, non è un concetto politico o storico-sociale come lo Stato ma culturale, in quanto è formata da uno o più popoli abitanti dentro o fuori di un territorio statale, ubbidienti o non ubbidienti allo stesso vincolo giuridico, aventi in comune – in toto o in parte – storia, lingua, folklore, tradizioni, letteratura, arte, religione, ecc.

Ciò detto, secondo gli storici tradizionali post-risorgimentalisti, la Nazione italiana esisteva, come idem sentire, prima del 1861 e la ricercano nel tempo per giustificare la nascita dello Stato (Stato sardo ma chiamato italiano) come risultato di una coiné – più che altro peninsulare – che inizierebbe addirittura dal Paleolitico. Ed in quest’ottica spacciano, ad esempio, Alboino, Gregorio Magno, Federico II, Dante Alighieri, Cristoforo Colombo, ecc., per italiani in senso moderno (invece, Cristoforo Colombo era un cittadino della Repubblica di Genova il quale, se incontrava un cittadino della Repubblica di Pisa o di Venezia non lo sentiva “italiano” ma straniero, come un tedesco o un francese, e, se era il caso, lo combatteva. Così era per Dante Alighieri, per Federico II, ecc. Io, diversamente, penso che si possa incominciare a parlare di Nazione italiana solo dopo il 17 marzo 1861, quando il Regno di Sardegna s’annetté quasi tutti gli Stati peninsulari i quali scomparvero così come soggetti giuridici, ma permasero e permangono con le proprie fisionomie nazionali ancora visibili come etnie all’interno di una Nazione italiana che ancora oggi si tenta di formare («fatta l’Italia, facciamo gli Italiani!») tramite l’istituzione di scuole comuni, l’impiego di mass media comuni (stampa, cinema, radio, televisione), e, soprattutto, tramite un insegnamento della storia patria altamente criticabile perché è falso: far passare la Storia dell’Italia (penisola) per Storia d’Italia (Stato).

Se si ripristinasse il Regno di Sardegna, chi sarebbe il discendente legittimo dei Savoia?
L’antica dinastia dei Savoia, iniziata il 9 febbraio 1416, si è estinta con la morte a Cagliari del piccolo Carlo Emanuele il 9 agosto del 1799. L’ultimo dei Savoia a regnare fu Carlo Felice senza eredi. Il 24 aprile 1831, in punto di morte, fece chiamare da Chambéry, nella Savoia, Carlo Alberto principe di Carignano, da lui disprezzato ed avversato ma impostogli dall’Austria, e lo presentò ai ministri radunati attorno al suo letto dicendo: «Ecco il mio erede e successore; sono sicuro che farà il bene dei sudditi». Morì alle 14,45 del 27 aprile e fu sepolto nella vicina abbazia reale di Altacomba. «Con lui – disse il vescovo di Annecy che benedisse la salma – sotterriamo la monarchia». Infatti, terminava la dinastia degli Amedei ed iniziava quella incognita dei Carignano, divenuti Savoia di adozione.

Per rispondere alla domanda di chi sarebbe il legittimo discendente dei Savoia in caso di ritorno della Stato alla monarchia, si può risalire al 28 ottobre 1922 quando fu effettuata la Marcia su Roma dai fascisti di Benito Mussolini. In quell’occasione, perché il Re Vittorio Emanuele III (di Sardegna) non la impedì coi suoi carabinieri? Pare che il sovrano abbia favorito Benito Mussolini per il timore di perdere il trono e cederlo al cugino Emanuele Filiberto di Savoia-Aosta che riproponeva l’antico rapporto conflittuale fra il ramo Aosta e il ramo Carignano dei Savoia.

I Carignano – si sa – erano Savoia di adozione dal 1831, dopo la morte senza eredi di Carlo Felice della dinastia degli Amedei di cui erano lontanissimi parenti. Si erano staccati dal ramo principale dei Savoia al tempo di Carlo Emanuele I col figlio cadetto Tommaso Francesco, nato il 22 dicembre 1596, e si erano riavvicinati il 7 novembre 1714 col matrimonio fra Vittorio Amedeo, principe di Carignano, e Vittoria Francesca figlia naturale di Vittorio Amedeo II di Savoia.

Inoltre, per quanto riguarda Vittorio Emanuele III, non è nemmeno certo che discendesse da un ramo “pulito” dei Carignano perché, a detta di Massimo D’Azeglio, molto introdotto a Corte, il vero erede di Carlo Alberto era morto nella culla la notte del 16 settembre 1822 per un incendio accidentale mentre soggiornava dai nonni materni a Firenze, nel Granducato di Toscana, e che sia stato sostituito col figlio di un macellaio di Villa Medicea del Poggio Imperiale chiamato Tanaca o Mazzuca (la storia è riportata da Silvio Bertoldi, in: Savoia, album dei Re d’Italia, Rizzoli, Milano 1996).

Sicché, fra Vittorio Emanuele e Emanuele Filiberto non correva buon sangue. Lo suggerisce pure il succitato Bertoldi, ben documentato sulla vita privata dei nostri Reali: «I duchi d’Aosta – scrive – suscitano nel Re, in pari tempo, timore e invidia. Timore perché Vittorio Emanuele è sempre stato convinto, probabilmente a ragione, che il cugino Emanuele Filiberto d’Aosta tramasse per togliergli la corona e prendere il suo posto. Sicché per l’intera vita ha badato a tenerlo lontano e a difendersene. Invidia per quel suo aspetto imponente che gli lasciava intendere quanto, dal punto di vista decorativo, l’Aosta avrebbe fatto come Re una figura assai migliore di lui».

Al di là di tutto, siano state questioni personali oppure forti pressioni politiche quelle che indussero Vittorio Emanuele III a non opporsi alla “Marcia su Roma” di Benito Mussolini, resta il fatto che il re mise inspiegabilmente l’Italia in mano al Fascismo, e il vero motivo della sua acquiescenza non è stato ancora svelato.
Nel 1985 il presidente della Repubblica Francesco Cossiga, di cui ero consigliere culturale, mi incaricò d’andare a Villa Italia a Cascais, in Portogallo, insieme con la direttrice dell’Archivio di Stato di Torino, dott.ssa Isabella Ricci Massabò, per cercar di recuperare i brogliacci di Vittorio Emanuele III che forse avrebbero svelato, fra l’altro: «…il mistero della Marcia su Roma» (parole di Cossiga). Purtroppo, gli eredi di Umberto II, da poco deceduto, non ci diedero il permesso di visita.

Le nostre considerazioni finali su quanto esposto dal professor Casula si racchiudono in un dubbio che diventa fondamentale nella comprensione degli eventi storici descritti: perché il Re Vittorio Emanuele III (di Sardegna) non impedì la “Marcia su Roma”? Il motivo fu politico o dinastico? Dato che “I duchi d’Aosta suscitano nel Re, in pari tempo, timore e invidia”…

Intervista di Antonella Di Luzio

*Francesco Cesare Casùla è nato a Livorno da genitori sardi. Dopo essersi trasferito in Sardegna si è laureato in Lettere a Cagliari nel 1959, ed ha subito intrapreso la carriera universitaria sempre nello stesso Ateneo. É stato a lungo membro del Consiglio Direttivo della Società degli Storici Italiani e della Commissione permanente per i Congressi di Storia della Corona d’Aragona. Dal 1980, per ventotto anni, ha ricoperto l’incarico di direttore dell’Istituto sui rapporti italo-iberici e dell’Istituto di Storia dell’Europa mediterranea del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR), con sede in Cagliari e sezioni a Genova, Torino e Milano. Dal 1985 al 1992 è stato consigliere culturale del Presidente della Repubblica Francesco Cossiga. Dal 2001 al 2006 è stato componente della Segreteria tecnica per la Programmazione della Ricerca presso il Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca (MIUR)

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