Mangiare carne di rettile, Speranza recepisce la norma UE

carne di rettile

All’ombra delle Alpi Svizzere si alleveranno coccodrilli del Nilo. Non per farne borsette o beauty case ma per venderne spiedini e hamburger agli altri paesi dell’Unione. Italia compresa. Perchè il Ministro della Salute Speranza ha recepito una norma che in Europa già consentiva di commercializzare carne di rettile e – con una solerte circolare del 4 novembre – l’ha applicata anche in terra di carbonara e bagna cauda. Sempre secondo la circolare, potrebbero entrare nell’iter autorizzativo dei nuovi alimenti per il consumo umano anche altre tre specie di coccodrillo, la lucertola ocellata europea, il pitone reticolato e la tartaruga guscio molle cinese.

Per il momento però, nel piatto abbiamo solo l’alligatore delle sponde del Nilo. Dolce come un merluzzo al guazzetto, anche se la consistenza si avvicina più a quella del pollo alla cacciatora. Ma soprattutto, la sua carne vale più di quanto pesa: da quando in Zimbabwe sono arrivate le multinazionali del food a gestire allevamenti e commercializzazioni, i prezzi hanno superato i 150 euro al chilo. Ed è proprio da questo paese africano che sarà consentito importare la materia prima destinata alle osterie italiane, insieme a Botswana, Vietnam, Sudafrica.

E alla Svizzera, unico Paese europeo autorizzato, già candidato a diventare il cuore pulsante e il centro di smistamento della carne di rettile sul suolo del Vecchio Continente. Sicurezza della filiera, analisi chimiche per escludere Salmonella e Trichinella, certificato di provenienza.

A garanzia del consumatore è previsto tutto. Tutto, tranne il fatto che industrializzare l’allevamento di una specie selvatica per immetterla nel circuito di distribuzione della ristorazione globale, infrange una decina di punti della transizione agro-ecologica europea. Della quale il Ministro Speranza si è sempre detto gran sostenitore.

A partire dal nome: “From farm to fork”, ovvero dal campo alla tavola. Un esercizio di stile, per i meticolosi che avrebbero voglia di fare il conto di quante parti per milione (le famose “ppm”) di anidride carbonica verrebbero emesse per trasportare un carico di coccodrillo dal Vietnam a Genova o dal Botswana a Taranto. E che invece già si trovano negli strettissimi obiettivi di riduzione delle emissioni di tutti gli Stati membri. Pena i già poco velati “blackout energetici” che ci lascerebbero al buio. Non parliamo poi del fatto che quando si tratta di difendere salami e prosciutti del made in Italy (provenienti da specie domestiche e non selvatiche), gli allevatori nostrani siano costretti a difendersi dall’accusa di essere i più feroci inquinatori del suolo patrio.

Non si capisce dunque, se è vero che i gusti sono gusti, in che modo una coda fritta di coccodrillo contribuisca a centrare l’obiettivo della Farm to Fork, secondo la quale “i sistemi alimentari devono urgentemente diventare sostenibili e operare entro i limiti ecologici del pianeta”. A quali limiti ecologici ci si riferisca quando in una circolare ministeriale si legge che vengono considerati rettili ad uso potenzialmente alimentare anche specie vulnerabili di estinzione come la tartaruga guscio molle, non è dato sapere. Però a occhio, sembrerebbe che la globalizzazione possa infrangere anche i confini gastronomici, sacrificati sull’altare della transizione ecologica.  www.today.it

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