Salvini e Borgonzoni nella rossa Emilia. Sinistra congelata a demonizzare gli avversari

di Antonio Amorosi

Bologna-Paladozza. Quello che sorprende di più è l’entusiasmo. Le argomentazioni, la lingua parlata dal popolo leghista, il sogno della presa del simbolo rosso per antonomasia, la Regione Emilia Romagna, per puntare poi a Roma, vengono dopo.

La serata al Paladozza di Bologna di ieri, 14 novembre, scelta dalla Lega per lanciare le regionali del 26 gennaio 2020, è stata questo. E sembrava un match di pugilato, complice anche l’enorme schermo centrale stile Madison Square Garden, dove l’avversario è una sinistra ingessata, alle corde. La Lega ormai guarda a se stessa come a un popolo, un ibrido di popolo, un mash up, un mischione di cose che apparentemente non stanno insieme, se non appunto in un contesto popolare. Tra gli spalti l’entusiasmo si è sollevato più volte ma soprattutto quando è partito l’inno dei mondiali anni ‘90 col ritornello “Notti magiche”. Una marea di bandiere leghiste hanno iniziato a sventolare tra avvocati che facevano il servizio d’ordine, chirurghi seduti di fianco a massaie che si sgolavano ogni qual volta Salvini facesse capolino, notai che sollevavano cartelli come se avesse segnato la squadra del cuore e ragazzi intenti ad addormentare i figli neonati. Un panorama irreale ma solo perché tv e giornali rappresentazione il mondo leghista in modo platealmente opposto: rozzo, volgare, occulto, privo di spessore.

Il Paese negli ultimi 30 anni è cambiato nel profondo e anche i leghisti sono mutati radicalmente, solo la sinistra italiana è rimasta come congelata. Non sembra essersi mossa di una virgola dalla caduta del muro di Berlino, ancorata alla retorica della buona amministrazione del presente senza slanci ideali o sogni di sorta. Raschiando raschiando oggi è diventata la sinistra di Bibbiano, dei radical chic che vivono nella ztl, degli interessi di banche e finanza, delle cooperative fatte per evadere il fisco, della burocrazia a cui baciare la pantofola, delle tasse ad ogni cosa respiri. Resistere resta l’ultima azione, l’ultima ancora di salvataggio. Ma a cosa? La sinistra italiana prima ha resistito allo scongelamento dei due blocchi della guerra fredda, poi all’avanzata di Berlusconi, ai civici stile il sindaco Guazzaloca, ai grillini del Vaffaday e oggi al pericoloso fascioleghista Matteo Salvini.

Un resistere che appare sempre più vacuo e che si concretizza nel mantenimento dello status quo, dove l’avversario è un nemico sempre più immaginifico e mostruoso.

La kermesse di Bologna, aperta da Alessandro Morelli e animata da Mario Giordano di Mediaset, è sembrata una sfida alla sinistra sugli ultimi terreni rimasti: la politica fatta come argomentazione e dialogo, la buona amministrazione locale, la cultura. E così hanno parlato il poeta Davide Rondoni, il ricercatore sociale Alessandro Amadori, l’imprenditore delle plastiche Marco Omboni. Poi sono intervenuti i “buoni amministratori”, ultimo vero avamposto della retorica di sinistra: i governatori Fedriga, Solinas, la neo eletta Tesei, Fontana, Zaia. E la cultura popolare, con la continua citazione di Giovannino Guareschi di “Peppone e don Camillo”, di quando spiegava come i fascisti una notte del 1943 si fossero addormentati per risvegliarsi al mattino tutti comunisti, con la stessa spocchia, la stessa presunzione di prima. Mancavano solo il cantante e il comico e poi c’era tutto l’armamentario della sinistra di una volta. Quella che sapeva tenere insieme “cultura alta” e “cultura bassa”, forza di popolo e argomentazioni.

Mentre in piazza Maggiore la sinistra vicina al Pd riempie la piazza e i centri sociali cercano gli scontri con la polizia nelle strade limitrofe il Paladozza, Salvini si lagna con i grandi giornali italiani perché non riportano neanche un’immagine delle kermesse. Dalle parole si capisce che l’obiettivo è restituire speranza e futuro e così critica il “governo delle tasse e degli sbarchi, di manette e povertà. Un governo che fa scappare le imprese è un nemico degli italiani… ogni giorno perdiamo un’azienda e non ce lo possiamo permettere.”

I cartelloni con il viso della Borgonzoni sono ovunque e lei va a segno nel discorso finale quando ripete che “per governare serve un noi” per liberarsi nelle regioni rosse, come Emilia Romagna e Toscana, dall’essere ostaggi di una casta politica. E poi riferendosi alla coalizione: “A me non piace chiamarlo centro destra, per me è un concetto molto più allargato, è un concetto di Regione, è un concetto di Italia, di Paese molto più ampio”. E cita Guareschi: “La verità spesso è così semplice ed elementare che appare incredibile”. Ci penso un attimo così come al tentativo di capire, che al di là del proprio orientamento culturale, dovrebbe muovere ogni giornalista. Poi mi giro e un collega di una grossa testata nazionale bonfonchia schifato: “Sti grezzoni del c….o, non capire una beata mi….a e loro è lo stesso”.

Vabbé, come non detto.

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