I giudici cancellano i reati alla terrorista comunista

di Luca Fazzo

Milano – È stata una terrorista, faceva parte dei gruppo di fuoco dei Comitati comunisti rivoluzionari, ha partecipato a una rapina in cui un uomo è stato ucciso.

Non ha mai fatto un giorno di galera, grazie alla dottrina Mitterrand, l’ospitalità concessa in Francia a capi e gregari della guerriglia rossa. Non si è pentita, non si è dissociata, non ha risarcito le sue vittime. Eppure il tribunale di Milano l’ha riabilitata: un privilegio che cancella il suo passato, la fa tornare incensurata, come se le violenze e i lutti di quegli anni non fossero mai esistiti.

Nel pieno delle celebrazioni per il quarantesimo anniversario del sequestro e l’uccisione di Aldo Moro, la storia di Giulia Riva riemerge da un armadio dimenticato in una stanza del palazzo di giustizia di Milano, che solo in questi giorni è tornato a venire aperto. Dentro ci sono novecento fascicoli di estradizioni mai ottenute, novecento storie di latitanti svaniti nel nulla, e che da tempo nessuno cerca neanche più. Sono in ampia parte storie di terroristi: ed è una antologia di storie grandi e piccole di quegli anni, riassunta da sentenze e mandati di cattura ormai consumati dal tempo e dall’umidità. I fascicoli malconci riportano alla luce delitti che negli annali del terrorismo nemmeno compaiono, ma che ebbero per vittime uomini in carne ed ossa. E raccontano significative storie di impunità.

Il primo mandato di cattura contro Giulia Riva porta la data del 27 giugno 1982, firmato da un giovane pm, Armando Spataro: dice che «precise dichiarazioni rese da più persone di cui non è possibile svelare allo stato l’identità» indicano la donna (che allora aveva 29 anni) come un componente dei Comitati comunisti rivoluzionari, la banda-clone di Prima Linea, responsabile di innumerevoli omicidi. I pentiti la indicano come una operativa, protagonista di una lunga serie di rapine di autofinanziamento: tra cui quella alla Cariplo di Zinasco, vicino Pavia, il 18 dicembre 1980. Il metronotte Alfio Zappalà reagisce, e viene ucciso senza pietà.

Il maxiprocesso a Prima Linea e ai Cocori si conclude nell’ottobre 1984 con condanne a più di mille anni. Alla Riva ne vengono inflitti ventitre per associazione sovversiva, rapina e omicidio. Lei nelle gabbie non c’è, a salutare a pugno chiuso la sentenza: è riparata in Francia, come molti altri suoi compagni. L’anno dopo, l’ambasciata italiana a Parigi comunica che «non è possibile dare corso alla richiesta di estradizione»: per il governo socialista non è una terrorista ma una rifugiata politica.

La Riva resta latitante, intanto tra appelli e indulti la sua pena scende. Ma le rimangono dieci anni da scontare. Nel 2008 la Corte d’appello di Milano dichiara «estinta la pena per decorso del tempo»: di fatto viene premiata la latitanza della terrorista, ma la norma è prevista dal codice penale, e i giudici non possono fare altro che applicarla. Il passaggio incomprensibile è quello successivo: la Riva nel 2013 chiede al tribunale di sorveglianza la riabilitazione, il colpo di spugna che cancella il passato, ripulisce la fedina penale. Serve che «il condannato abbia dato prove effettive e costanti di buona condotta» e risarcito le sue vittime. Nulla di questo risulta accaduto. Il 16 febbraio 2014, il tribunale accoglie la domanda.

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