Gombloddoh! La lotta al complottismo è una lotta per il consenso

Tante volte mi sono chiesto chi siano davvero i complottisti. Gli studi condotti a partire dalla classico lavoro di Lipset e Raab sull’estremismo politico (1970) pongono l’accento sulle tare metodologiche del complottismo come tendenza semipatologica ad anteporre fantasie e paure alla consequenzialità dei materiali empirici. In questi lavori troviamo ipotesi sulla genesi del fenomeno, mappature socioeconomiche sulla sua diffusione, saggi di psicologia sociale. pareri psichiatrici.

La prospettiva, riproposta in una vasta e ridondante letteratura, ha il generico merito di esporre le cause e gli effetti dell’irrazionalità nelle dinamiche macrosociali. Ciò che però quasi sempre le manca è una critica del concetto stesso di complottismo: della sua genesi e della sua tassonomia, e più in particolare dei suoi scopi nella comunicazione di massa, nonché del suo eventuale contributo a quella stessa irrazionalità che con esso ci si propone di denuciare.

Prima di parlare dei complottisti e dei loro moventi bisognerebbe definirne l’etichetta nel contesto politico e culturale di riferimento. Nelle corti europee dei secoli scorsi intrighi e complotti erano all’ordine del giorno, ma non c’erano i complottisti. E chi metteva in discussione la verità di regime nelle dittature comuniste era sì un dissidente, ma non un complottista. La novità, il tema che sarebbe fertile approfondire, non sono quindi coloro che credono nei complotti – veri o falsi che siano – ma i motivi per cui, nel sistema contemporaneo di produzione e distribuzione della verità, si ricorra da entrambe le parti proprio alla categoria del complotto per designare coloro che criticano la verità cosiddetta ufficiale.

Un’analisi di questo tipo sarebbe oggi opportuna, anzi urgente. Negli ultimi anni il complottismo sembra infatti essersi riqualificato da risibile tara intellettuale di pochi disadattati in un’emergenza sociale e quindi – come è nello spirito dei tempi – anche economica. Sul Sole 24 Ore di domenica 10 ottobre appariva un editoriale del filosofo Gilberto Corbellini dal titolo Ecco quanto ci costa la mania dei complotti. Il quale, oltre a non fornire nessuna stima dei costi del complottismo, non spiegava nemmeno in cosa esso debba consistere. Come già in altri studi e riflessioni sul tema, le premesse sono sottintese così da condurre automaticamente ai giudizi, che infatti appaiono già in apertura del pezzo:

… le derive più rischiose, che causano sia danni e morti a persone fisiche sia costi economici, disfunzioni istituzionali e instabilità sociale, sono le credenze pseudoscientifiche e le paranoie complottiste.

In ciò l’articolo di Corbellini non si discosta dalla quasi totalità della letteratura giornalistica d’opinione, il cui scopo è quello di consolidare tramite reiterazione il sistema di idee a cui è abituato il lettore, senza fornire contributi informativi sulla formazione di quelle stesse idee.

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La premessa più ovvia è che i complotti sono sempre esistiti, fanno parte del complicato bagaglio delle relazioni socioeconomiche, sicché credervi non è indice di malattia né, appunto, di complottismo. Alcuni autori (ad es. Dean, 2000) ipotizzano che la sensibilità ai complotti sia il portato evoluzionista di epoche in cui i complotti erano una norma sociale da cui proteggersi. Dello stesso avviso il Corbellini:

Immaginarsi o credere ai complotti doveva essere vantaggioso, o almeno non dannoso, per i nostri antenati preistorici. Sospettare macchinazioni ai propri danni teneva in allerta i nostri antenati, e quelli che sviluppavano questo tratto evidentemente lasciavano più figli, cioè sono stati favoriti dalla selezione naturale. Ogni tratto fenotipico si esprime in una popolazione a livelli più o meno spiccati, per cui le persone possono essere più o meno appagate dal credere in teorie complottiste. Si può anche pensare che coltivare il sospetto prevenisse dal diventare più facilmente preda di inganni e manipolazioni da parte di aggregazioni sociali di potere. Tuttavia, viviamo in società che non sono più quelle preistoriche o anche premoderne, e in un mondo dove sono disponibili conoscenze e metodi scientifici per controllare come stanno i fatti, dove esistono leggi scritte, governi democraticamente eletti.

Ora, si prova sempre una certa tenerezza quando qualcuno se ne esce dalla teoria dei millenni per segnare col gessetto una cesura epocale, smarcarsi dagli avi e credersi protagonista di una svolta che renderebbe obsolete le lezioni della storia. L’idea che “questa volta è diverso” deve avere accarezzato i semplici di ogni evo – e i risultati si vedono: mentre scrivo si radunano truppe al confine russo come nel 1947, si pensa di unire l’Europa sotto i tedeschi come nel 1939, si perpetua una crisi economica con l’austerità come negli anni Trenta, si importano africani come nell’America dell’Ottocento, si sognano le crociate come nell’undicesimo secolo.

Ma anche accettando l’ipotesi di vivere in una felix aetas postcomplottista, bisogna supporre che la svolta sia avvenuta in tempi recenti, anzi recentissimi, se ancora nel 2001-2003 i “governi democraticamente eletti” cospiravano per far credere ai propri elettori che in Iraq si progettava lo sterminio dell’umanità, così da poterlo radere al suolo a spese di tutti e a beneficio di pochissimi. E se ancora negli anni sucessivi le “conoscenze e [i] metodi scientifici per controllare i fatti” non impedivano a poche aziende farmaceutiche di vendere miliardi di vaccini inutili facendo credere al mondo che si preparavano pandemie epocali: SARS, H5N1, AH1N1.

Evidentemente si viveva, fino all’altro ieri, in società “preistoriche o anche premoderne”.

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Si consideri un esempio di scuola: gli eventi dell’11 settembre 2001. In quel caso alcune persone conclusero che gli attacchi erano stati condotti per iniziativa o con la complicità dello stesso governo americano per giustificare le successive guerre al “terrore”. Ai sostenitori di questo complotto, conseguentemente etichettati come complottisti, si opponeva la tesi istituzionale secondo cui i terroristi erano finanziati e addestrati da un miliardario pazzo con l’appoggio di alcuni governi del quarto mondo. Il che è a sua volta un complotto, non meno convoluto e spericolato del primo. L’opinione pubblica si trovava così divisa tra due complotti, di cui uno anche complottista.

Il caso suggerisce che il complottismo non è definito né dalla natura né dalla narrazione di un evento, ma dal suo narratore. È un problema di fonti. Una credenza perfettamente razionale – come ad esempio il sospetto che un imprenditore diffonda informazioni false per aumentare i profitti – può essere complottista, laddove una risibile e indimostrata – come le recenti accuse di pirateria informatica rivolte da Hillary Clinton al governo russo – può non esserlo. Dipende, appunto, da chi lo racconta.

Quando scrissi l’articolo Come si fabbrica un terrorista qualcuno mi diede – in quel caso come complimento – del complottista. Ma in quella ricostruzione non c’era una riga che non fosse tratta dagli atti processuali e dalle testimonianze rese sotto giuramento dagli stessi funzionari dell’FBI. Il documentario riportato in calce all’articolo era montato quasi esclusivamente con materiali originali e diffusi in aula, senza attori. Ciò nondimeno si trattava di notizie mai apparse sui giornali, sicché doveva trattarsi di complottismo.

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Quanto osservato mette seriamente in crisi le pretese epistemologiche di chi si spende contro la piaga del complottismo. Se quest’ultimo si definisce nel suo rapportarsi con l’autorità narrante di un evento – se più o meno “ufficiale” – allora cade il nesso tra complottismo e rifiuto del metodo scientifico. A prescindere dalla verosimiglianza e razionalità delle ipotesi messe in campo dai complottisti, il solo fatto di qualificarli secondo la loro adesione a una fonte è antiscientifico in partenza perché implica una fallacia ad auctoritatem.

Un’informazione è ufficiale quando è emanata o approvata dall’autorità in carica. Per estensione lo è anche se vi si conforma nel messaggio e nel linguaggio, come di norma avviene nella stampa di più larga diffusione. L’ufficialità è quindi un attributo politico, non epistemologico. Associarla alla correttezza, rigore, buon senso ecc. di un messaggio esprime semplicemente la fiducia del destinatario nel sistema politico che lo sancisce, non nel messaggio stesso.

Sul punto osserviamo che, oltre a quanto riportato, il citato articolo di Corbellini si apriva proprio con un atto di fede politica:

I valori che hanno consentito alla civiltà occidentale di prevalere sul resto del mondo – per parafrasare un bel libro di Niall Ferguson – raddrizzando e adattando come mai prima il legno storto di cui siamo fatti…

Se la civilità occidentale è la migliore del mondo (perché? chi lo dice? dove è dimostrato?), allora i suoi messaggi non possono che soddisfare i requisiti della verità e della scienza. Il resto è noia, zeppa retorica per non dire che chi si candida a insegnare il pensiero critico ai lettori lo fa agganciandosi a un acritico credo nella civiltà a cui si gloria di appartenere.

Se quella del complottismo è una mera questione di auctoritas, il suo rapporto con il metodo scientifico è neutro: può aderirvi rigorosamente o allontanarsene fino al delirio. L’accusa di pseudoscientificità mossagli dai suoi inquisitori, selezionando all’uopo i suoi esponenti più fantasiosi e allucinati, non è che l’incidentale strumentalizzazione dialettica della dignità scientifica in quanto valore universalmente riconosciuto dal pubblico. Poi poco importa se sono loro, gli inquisitori, i primi a violare quel valore omettendo l’obbligo della critica delle fonti. Se oggi i complottisti sono antiscientifici, qualche secolo fa sarebbero stati eretici, empi o blasfemi.

Scientifico o meno, il complottismo è un indicatore di fiducia nell’autorità. Per questo i giornali se ne occupano sempre più spesso. Negli ordinamenti democratici moderni, dove non esiste formalmente una verità di Stato da imporre con la forza pubblica, l’adesione dei cittadini ai messaggi approvati dal sistema di potere in carica misura la loro disposizione ad accoglierne l’agenda politica.

Detta più in breve, la lotta al complottismo è una lotta per il consenso.

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Ma perché i complotti? I fatti denunciati dai presunti complottisti sono in origine reati o comportamenti riprovevoli: truffe, conflitti di interesse, illeciti regolatori, abusi di potere, falsi ideologici, tradimenti, omicidi, stragi, eventualmente ragion di stato. Solo in seguito diventano complotti, quando cioè si calano in una cornice intepretativa che ha poco a che fare con gli atti e molto con le emozioni.

Per quanto in certi casi di enorme portata criminale, i cosiddetti complotti possono essere utilmente ricondotti alla più asettica fattispecie dell’associazione a delinquere, così da non incorrere nelle derive interpretative tipiche del credo cospirazionista: un’esagerazione nella stima delle complicità e, quindi, delle doti intellettuali dei custodi dell’ufficialità; l’attribuzione di intenti malvagi in luogo di più intellegibili interessi e paure; la credenza in una perfetta impermeabilità degli eventi alla conoscenza esterna; la credenza in un’altrettanto perfetta comunione di intenti dei perpetranti, fino a elidere la dialettica dei poteri nell’ipotesi di una mente unica che governerebbe il mondo.

Se è vero che i ricchi e i potenti intrigano oggi come nel passato, è anche vero – per concedere un punto ai Corbellini – che i valori politici contemporanei creano un’aspettativa positiva nei confronti di un sistema giuridico e mediatico che dovrebbe tendere a esporre i misfatti e a promuovere una naturale convergenza tra verità ufficiale e verità fattuale. In un’epoca in cui la trasparenza e la partecipazione popolare sono iscritte nelle leggi e la libertà di stampa che-fa-la-guardia-al-potere è celebrata a ogni piè sospinto, è facile cadere nell’illusione che certe imprese criminali debbano avvalersi di vastissime trame di complicità per restare nell’ombra. Che è poi lo stesso equivoco di chi, all’estero, crede che in Italia le cupole mafiose non potrebbero esistere senza la collusione di tutti i nostri concittadini, nessuno escluso.

Paradossalmente è proprio la fiducia nell’ufficialità che, una volta tradita, crea la percezione del complotto. Se si accettasse, come si è sempre fatto, che in primo luogo le verità di regime non possono nuocere al regime, e che le regole del buon governo esistono proprio perché c’è chi le viola, si considererebbero atti e posizioni ufficiali secondo gli interessi che di volta in volta esprimono, senza la pretesa di attingere alla verità – o alla menzogna – da una fonte certificata.

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In quanto ai custodi del consenso, per loro è diverso. Per loro la semantica del complotto è una manna dal cielo perché riqualifica le opposizioni al pensiero dell’autorità come disturbi mentali, ossessioni persecutorie e manìe che non meritano l’attenzione dei sani. In ciò li aiuta anche una schiera accademica che associa l’idea della cospirazione alla patologia psichica e al disagio sociale, con derive esclusiviste che è facile prevedere. Ad esempio, per Zonis e Craig, 1994, il complottismo sarebbe una “malattia” che colpisce collettivamente i neri e i musulmani mediorientali, a motivo di pratiche materne e sessuali i cui dettagli ci piace risparmiare ai lettori.

La pratica di dichiarare pazzi gli oppositori politici è comune a molti regimi. Nella Russia sovietica lo psichiatra Andrei Snezhnevsky e i suoi collaboratori ritenevano che il dissenso politico fosse il sintomo di una mai udita “schizofrenia latente” (вялотеку́щая шизофрени́я) che nei casi più “gravi” poteva giustificare l’internamento a vita nei manicomi di stato, tra cui quello famigerato e remoto di Kazan, in Tatarstan, dove trovarono la morte centinaia di nemici del regime. Oggi naturalmente siamo lontani da quegli eccessi, che però covano nella caccia al complottismo, sostituendosi l’insinuazione all’accusa e la squalificazione ad personam alla repressione fisica.

Il risultato manipolatorio è quello, già descritto su questo blog, della paura della paura. Il timore che chi presiede i centri di potere politico, finanziario e imprenditoriale possa agire contro l’interesse delle comunità per realizzare i propri particolari e inconfessati interessi, e che lo faccia mentendo per non compromettere il consenso, è un timore da reprimere per non apparire deboli e malati.

Poi poco importa se alla follia di certe teorie complottiste corrisponda un’altrettanta e dimostrata follia delle azioni del potere in carica, dalle tante guerre presenti e future alle politiche in corso di diseguaglianza, revoca dei diritti e spoliazione della ricchezza diffusa. E se ai sorrisi che può strappare l’idea di una terra piatta o di un governo alieno dell’umanità corrispondano le lacrime di chi perde il lavoro per l’urgenza pelosa di abbattere i confini del mondo. E se all’immaginato deterioramento della salute pubblica per un calo insensibile dei vaccini corrispondano la malattia e la morte certe di migliaia di greci lasciati senza cure per arricchire pochi speculatori e con il pretesto bugiardo della stabilità del continente.

Nel paradigma del complotto le narrazioni alternative sono paranoiche in quanto tali. Così gli abusi e le menzogne che coprono gli abusi, laddove esistono, si trasformano in complotti non per il macchiavellismo di chi li ordisce, ma per la complicità di chi non li denuncia: per paura di averne paura.

L’idea di complottismo, come già altre esposte su queste pagine pedanti, integra uno dei tanti volti della tecnocrazia. Perché mortifica le opposizioni dialettiche e quindi la sorveglianza democratica, suggerisce l’idea di un buon governo in quanto governo e di un rigore scientifico garantito da chi ha la forza di reclamarne la titolarità, non dai suoi risultati. In ciò promette ai governati il vanto della salute mentale e di immaginarsi, dopo millenni di lotte tra chi esercita il potere e chi lo subisce, al capolinea della storia, cittadini di un mondo vocato al bene comune dove il sospetto è obsoleto, la paura un peccato.

IL PEDANTE

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