La bufala del jobs act: decine di aziende in fuga dall’Italia, licenziamenti a raffica

C’ è l’ olandese Philips e la francese Thales. Ci sono i cinesi dell’ Haier e gli svizzeri della Nestlé. Gli svedesi della Ericsson e (a breve) gli americani dell’ Ibm. A leggere l’ elenco dei tavoli aperti al ministero dello Sviluppo Economico si fa il giro del mondo, ma poi si torna sempre qui, in Italia. Dove sono a rischio i siti produttivi e la forza lavoro.

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Tobia De Stefano per ”Libero Quotidiano

E dove negli ultimi mesi si è perso tanto tempo a parlare dei presunti effetti salvifici del Jobs Act (che ha creato pochissimi nuovi posti a un prezzo salatissimo) e ci si è dimenticati che le grandi multinazionali non vengono o scappano e chiudono rami d’ azienda perché, per esempio, il costo del lavoro (e qui non parliamo degli sgravi una tantum) è eccessivo. Perché la burocrazia ne paralizza l’ attività. Perché le regole cambiano di continuo. E perché prima di sapere l’ esito di una qualsiasi causa passano degli anni. Tutte cose ben note sulle quali però si è fatto poco o nulla.

Alla Saeco, per esempio, la Philips ha deciso di smobilitare perché può trovare in giro per l’ Europa manodopera più a buon mercato. Dopo anni di crisi strisciante, rattoppata spesso e volentieri con dosi massicce di cassa integrazione, è arrivato l’ annuncio: a Gaggio (sull’ Appennino bolognese), macchine domestiche per il caffè, ci sono 243 esuberi. Si andrà via dall’ Emilia (o meglio, qui resta solo la parte creativa e quella commerciale) e si trasferisce la produzione in Romania, dove un operaio costa la metà di un italiano.

Meno note sono, invece, altre vertenze. Ricordate i cinesi della Haier? Oggi sono il terzo più grande produttore al mondo di beni per la casa. Il loro arrivo in Italia aveva fatto scalpore. I primi approcci agli inizi del nuovo millennio e poi nel 2012, in tempi di piena recessione, la decisione di aumentare gli investimenti a Campodoro (Padova) nella campagna veneta. Bene, oggi che il Pil aumenta loro se ne vanno. Chiudono l’ unico insediamento che hanno in Europa e lasciano a piedi i 102 lavoratori del sito.

«La produzione in Italia – spiegava nell’ ultima riunione al ministero (10 novembre 2015) il direttore dello stabilimento Francesco Albrizio – è calata fino a circa 17.000 pezzi». Come mai? «Nonostante il ritorno di immagine del Made in Italy, il marchio cinese resta difficilmente spendibile». Amen. Anche se viene il dubbio che il giochetto di arrivare, saccheggiare il nostro know how e poi andare via, in Italia si possa fare troppo facilmente.

Capitolo Ibm. Qui la doccia fredda è arrivata tra Natale e Capodanno. Via mail. Che comunicavano a circa 300 dipendenti della multinazionale americana (200 lavorano tra Milano e Torino) che sarebbero passati alla società interinale Adecco. Si tratta – questa è l’ accusa dei sindacati – per la maggior parte di lavoratori over 50 che guadagnano tanto e magari per l’ azienda rendono poco.

«Candidamente – spiegava al Corriere il rappresentante della Fiom Marco Mandrini – l’ azienda ha ammesso di considerare quei 306 in esubero, ma di non poter licenziarli perché ne ha già altrettanti in uscita (i 7 mila dipendenti italiani in due anni si sono ridotti di oltre un quarto)». Intanto sono iniziati scioperi e i presidi e i sindacati chiedono di aprire una trattativa al Mise.

Poi c’ è il tavolo che vede protagonisti i francesi di Thales. La multinazionale che spazia la sua attività dai trasporti alle tlc, fino a passare per i sistemi di sicurezza, l’ aerospazio e la difesa. Nella riunione al ministero del 14 dicembre il vice presidente della Regione Abruzzo, Lolli, esprimeva preoccupazione per le sorti dello stabilimento di Chieti, in cui si trovano le linee produttive che, secondo il piano industriale, presenta maggiori incertezze. Cosa succederà ai circa 100 addetti del sito (un terzo lavorano alla produzione di una radio militare) se non venissero confermate tutte le linee produttive?

E cosa succederà agli operai dello stabilimento della Nestlè-Perugina di San Sisto? Il 7 ottobre c’ è stato l’ ultimo incontro al ministero. Interlocutorio. Il problema è che tra pochi mesi scadono i contratti di solidarietà sottoscritti nel 2014 e per evitare che i 210 esuberi dichiarati diventino licenziamenti si aspetta con grande ansia il piano industriale. Dovrebbe rilanciare la fabbrica, ma non c’ è. E intanto, almeno nella prima metà del 2015, la produzione ha continuato a calare.

In Campania, poi, è esemplificativa la storia della Ericsson. Che a inizio aprile del 2015 ha venduto lo stabilimento di Marcianise (Caserta) alla multinazionale Usa Jabil. Forza lavoro? 400 persone. Obiettivo? Sfruttare l’ abbinamento con un altro stabilimento campano che dava lavoro a circa 600 persone. «Purtroppo – ci spiega Giuseppe Terracciano della Fim, l’ unione non fa la forza – perché il mercato in questi mesi ha condannato la multinazionale a stelle e strisce che a fine anno ha dichiarato altri 200 esuberi per i quali siamo ricorsi alla mobilità».

Il 23 novembre, invece, al ministero è andato in scena la trattativa per la Lag. L’ azienda di panificazione che dal primo di gennaio è stata acquisita dalla multinazionale belga Vandemoortele. Che ci ha messo pochi mesi prima di dire stop allo stabilimento di Due Carrare (nel padovano). Dava lavoro a 40 persone.

Mentre si è chiuso con un mancata partecipazione dell’ azienda l’ ultimo tavolo (del 12 ottobre) per la Allison. Un gruppo italiano, ma con una fortissima impronta internazionale, specializzato nella progettazione di occhiali. Qui c’ è in ballo il trasferimento di 120 dipendenti da Padova a Volta Mantovana. Alcuni sono già andati via, altri stanno ancora protestando.

E meno male che alla Michelin di Fossano (Piemonte) si è trovato un accordo in extremis. Il sito chiuderà, ma rispetto ai 570 esuberi annunciati, 362 saranno ricollocati e la parte restante godrà di prepensionamenti o incentivi all’ autoimprenditorialità. Garanzia? Sarà il dipendente e decidere se prendersi il bonus o restare in azienda.

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