Se la decisione di dividere in tre capitoli la trasposizione de Lo Hobbit sul grande schermo fosse stata dettata da motivazioni di carattere più economico che artistico, è una domanda che era più che lecito porsi.
La visione del film spazza via qualsiasi dubbio al riguardo, confermando purtroppo la più impietosa fra le due ipotesi.
In barba a qualsiasi fedeltà al romanzo di Tolkien costantemente sbandierata prima, durante e dopo la lavorazione de Il Signore degli Anelli, il solo espediente che Peter Jackson, Philippa Boyens, Fran Walsh e Guillermo del Toro sono riusciti ad immaginare pur di allungare di qualche pagina la sceneggiatura (e di qualche ora il film) è stato quello di inventare. Decisamente a sproposito, però.
Se si fossero limitati all’introduzione di un personaggio di fantasia, l’elfa Tauriel, magari nessuno ci avrebbe fatto troppo caso.
Ma che il capitano delle guardie reali di Bosco Atro susciti l’innamoramento di un nano, e che molte delle inquadrature che li vedono protagonisti siano caratterizzate da ammiccamenti, occhiolini e sorrisetti, allora è decisamente troppo.
Anzi, c’è ancora spazio per qualcosa di più fantasioso: la gelosia di Legolas! Difficile immaginarselo, vero? Eppure è così! Anche lui, fra l’altro, compare “fuori luogo”, si dice per sostituire il Re Thranduil e fare da collegamento con i film precedenti. Come non pensare, però, che nessuno abbia preso in considerazione il fatto che il pubblico femminile innamorato di Orlando Bloom sarebbe corsa a comprare il biglietto pur di rivederlo?
La bravura degli artisti, degli attori, dei costumisti, dei disegnatori, degli scenografi e dei tecnici degli effetti speciali che lavorano ai film è una qualità oramai (ri)conosciuta.
Ma questa volta nemmeno questo è sufficiente per salvare un film che appare più come un inevitabile tappabuchi in attesa del prossimo. Una sensazione che, al contrario, nessuno ha mai avvertito con Le due torri.
Luca Balduzzi