Crisi magistratura e caso Palamara. Il fendente di MD: riformare le teste

Di Antonio Amorosi – La corrente di sinistra delle toghe italiane, Magistratura democratica, scaglia un fendente sulla riforma della giustizia. In seguito allo scandalo Palamara che ha scosso in profondità il mondo delle toghe è stato pubblicato su Questione giustizia, la rivista online di Md, uno scritto del professor Enrico Grosso, Ordinario di diritto costituzionale nell’Università di Torino, che analizza lo spettro dei problemi attuali arrivando alla conclusione che non ti aspetti (anche se il concetto è già esplicito nel primo dei 5 capitoli dello scritto): “nessuna riforma delle regole funzionerà mai se non è preceduta, accompagnata e seguita da una profonda riforma delle teste. In assenza di un radicale e decisivo cambio di mentalità, al quale si accompagni una rinnovata assunzione di consapevolezza circa il ruolo cui la Costituzione chiama il potere giudiziario, nessuna modifica della legge elettorale potrà servire”.

L’indipendenza e l’autonomia dei magistrati è la pietra angolare della loro libertà ed il sistema dovrebbe favorirla affinché il potere giudiziario funzioni, ma fa il contrario. Questo “affinché”, scrive Grosso, “non si ripropongano in futuro i gravissimi episodi di vera e propria ‘spartizione delle cariche’, soprattutto nelle assegnazioni degli incarichi direttivi, che le indagini giudiziarie della Procura della Repubblica di Perugia hanno fatto emergere”.

E’ ormai evidente anche ai sassi che per anni si è andati avanti con una ‘spartizione delle cariche’ e degli incarichi con accordi tra correnti, Md compresa, in cui si è privilegiata l’appartenenza alla competenza. La critica perentoria non viene da un cattedratico qualsiasi, tra l’altro discendente di una famiglia di stimati giuristi, ma da un professore molto considerato nel settore il cui curriculum pubblicato appare di rilievo con 120 pubblicazioni scientifiche alle spalle, tra cui sei monografie, nell’ambito del diritto costituzionale e del diritto costituzionale comparato

Non si esce da questa crisi con un cambio delle regole, tanto più sbagliate come quelle scritte nella cosiddetta proposta di Riforma Bonafede che il professor Grosso cita come “progetto Bonafede” e che Affari ha pubblicato in esclusiva l’1 giugno scorso. Potete leggerla qui.

Sulla questione Grosso è esplicito: “Confesso di appartenere, sul punto, al partito dei perplessi (se non degli scettici)”. E non è morbido. “Ritengo davvero mistificatorio l’atteggiamento di chi prova a convincerci che siano le norme (a cominciare da quelle costituzionali, per proseguire con quelle che condizionano i modi di composizione degli organi elettivi) a determinare meccanicamente il funzionamento di questi ultimi, e che dunque basti cambiare le norme affinché si risolvano le difficoltà di funzionamento”. E ancora: “Nutro seri dubbi, in generale, in merito alla autonoma capacità conformativa delle regole. A partire dalle regole costituzionali. Fare affidamento solo ed esclusivamente sulla modifica ordinamentale per promuovere un mutamento incisivo di prassi comportamentali che quelle regole hanno reso possibili è, nella migliore delle ipotesi, illusorio. Nella peggiore è mistificatorio. Ho sempre diffidato di quell’illusione costruttivistica che assegna alle norme il compito esclusivo di modificare gli assetti politici, gli equilibri di potere, le modalità concrete con cui esso si manifesta nella prassi”.

Grosso parla con parole davvero gravi di quanto successo nella magistratura: “dissoluzione di un tessuto sufficientemente condiviso di valori costituzionali, dal venir meno della solidarietà repubblicana, dall’afasia di fronte all’assalto dei micro-interessi corporativi, da una perdita, mi spiace dirlo, di quella larga e un tempo radicata convinzione circa il supremo valore costituzionale dell’autonomia e dell’indipendenza del potere giudiziario che una volta accomunava, pur nelle diverse sensibilità ideologiche, la maggior parte dei magistrati”

Nessuna riforma delle regole può rimettere in sesto un sistema senza un cambio di mentalità profondo “anzi, rischierà di essere addirittura dannosa, se è vero, come insegnano da decenni i politologi, che le regole elettorali tendono sempre a indurre spontaneamente comportamenti adattativi e strategicamente razionali rispetto allo scopo”, cioè con un ritorno alle “spartizioni” per “il potere”.

Questi sistemi, che la “dissennata” legge elettorale in uso attualmente ai magistrati accentua e la riforma Bonafede non cambia, procurano secondo il professore “logiche di schieramento e collateralismo che producono talvolta risultati davvero deludenti in termini di attitudini e qualità individuali dei prescelti”… “le singole articolazioni della magistratura associata a trasformarsi in vere e proprie ‘macchine di organizzazione del consenso’”, in cui vale sempre più la “fama individuale, l’esposizione mediatica, le eventuali pregresse benemerenze conquistate nell’esercizio di cariche associative o negli organi centrali dell’ANM, e così via”. Aspetti che verrebbero accentuati con la Riforma Bonafede che facilita “le cordate”.

E “il problema non è difendere il CSM dal rischio di ‘politicizzazione’. Anzi”, spiega il professore, “quello della politicizzazione del CSM è un falso problema: è ovvio che il ruolo dei giudici indipendenti nello Stato costituzionale è anche un ruolo politico”.

Il rischio vero è la mancanza di autonomia, indipendenza e quindi di libertà.

Grosso lo spiega bene. “La ‘politica’ e il ‘potere’ non sono affatto la stessa cosa. È per questo che un buon sistema elettorale dovrebbe contribuire a favorire la selezione di personalità dotate di individuali qualità di autonomia e indipendenza che evitino o riducano il minimo il rischio che l’assunzione di decisioni delicate come quelle che hanno ad oggetto la carriera dei magistrati diventi puro e semplice esercizio di potere”.

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