“Italiani dovete morire”

di Aldo Grandi

L’8 settembre 1943 era un mercoledì e faceva caldo, forse più caldo degli altri settembre che lo avevano preceduto. Gli italiani aspettavano la fine della guerra da un momento all’altro, tanto, ormai, erano sicuri di averla persa. Il 25 luglio dello stesso anno Mussolini era stato messo in minoranza dal Gran Consiglio del fascismo e il giorno seguente il re, che lo aveva fatto arrivare al Governo nell’ottobre 1922 e ne aveva avallato ogni atto e decisione, lo fece arrestare a Villa Savoia (oggi Villa Ada) sulla Salaria. Al suo posto Vittorio Emanuele III nominò Pietro Badoglio, colui che aveva perso a Caporetto e che si era, poi, distinto in Etiopia durante la guerra coloniale del 1935-36. A Roma, pochi giorni prima, gli americani avevano bombardato il quartiere di San Lorenzo e i romani avevano accolto il papa Pio XII che si era precipitato quando ancora le bombe cadevano sulla città.

Il popolo italiano era stremato. Il regime, che nessuno si era mai sognato di contestare salvo alcuni sparuti gruppi di intellettuali, era divenuto bersaglio di accuse e risentimenti, con i soldati morti – a fine guerra saranno oltre 300 mila – che gridavano vendetta mandati impreparati e senza armi e mezzi adeguati sui fronti di mezza Europa e dell’Africa. Alla caduta di Mussolini l’Italia esultò, convinta che la guerra fosse finita. Busti del duce, distintivi del fascio, sedi del partito, tutto o quasi venne distrutto dalla rabbia popolare. La gente, quella che, appunto, ma era tutta, ragionava con la pancia, dell’ordine costituito, della guerra, del fascismo, delle camicie nere, di Mussolini non ne poteva davvero più.

Eppure quel giorno, lo speaker principe dell’Eiar, Giovan Battista Arista, accolse Pietro Badoglio nello studio dal quale il vecchio militare annunciò che la guerra sarebbe continuata, l’Italia avrebbe tenuto fede alla parola data. Aggiunse che ogni turbativa dell’ordine pubblico sarebbe stata repressa duramente e così fu.

In quel momento in cui il popolo venne tradito una prima volta, nessuno poteva immaginare che cosa sarebbe accaduto di lì a poco. La gente scendeva in piazza e chiedeva la liberazione dei detenuti e la libertà dopo 20 anni di dittatura fascista. Ma coloro che avevano conservato il potere liquidando, da un giorno all’altro, il regime, avevano ben chiara la consapevolezza che il popolo doveva essere tenuto lontano da ogni aspirazione politica e sociale. Fu così che Badoglio e la classe militare che aveva preso in mano le redini del paese instaurarono lo stato d’assedio e il coprifuoco, vietarono ogni attività politica perché l’ordine non fosse turbato, imposero la censura preventiva sulla stampa, stabilirono che tre persone le quali si fossero attardate in un angolo di strada erano passibili di processo come sospette di intenzioni insurrezionali.

Fecero di tutto, in quei 45 giorni fino all’8 settembre 1943, per reprimere con durezza e inaudita violenza ogni tentativo del popolo di riprendere in mano la propria vita. Non si contano i morti in quel breve periodo della nostra storia. Civili vennero trucidati senza alcuna pietà durante manifestazioni di ogni genere, persino quelle che chiedevano semplicemente i propri diritti e contro la fame. Ogni desiderio della gente italica venne stroncato sul nascere anche per non irritare l’alleato tedesco che non si fidava e che aveva subdorato la possibilità che l’Italia si defilasse dal conflitto. Del resto non era una novità che l’Italia cominciasse una guerra con un alleato diverso da quello con cui la finiva.

Venne l’8 settembre 1943 e, dopo l’annuncio del generale Eisenhower dell’armistizio di Cassibile che il re avrebbe voluto rinviare, Pietro Badoglio annunciò ancora una volta alla radio il suo proclama:

«Il governo italiano, riconosciuta l’impossibilità di continuare la impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla Nazione, ha chiesto un armistizio al generale Eisenhower, comandante in capo delle forze alleate anglo-americane.

La richiesta è stata accolta.

Conseguentemente, ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo.

Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza».

Cosa voleva dire da qualsiasi altra provenienza? Non sarebbe stato più semplice ed onesto spiegare chiaramente che si trattava di rivoltare le armi contro i tedeschi? Invece no, ancora una volta la classe dirigente si rifiutò di assumersi le proprie responsabilità e preferì mantenere l’ambiguità che l’aveva contraddistinta.

In quel momento sia il popolo italiano sia l’esercito e le altre armi, avrebbero avuto il diritto di essere armati per combattere contro l’ex alleato che, sicuramente, non avrebbe preso bene il tradimento dell’Italia. Invece, la mattina del 9 settembre, da Roma partì un lungo convoglio con in testa la famiglia reale e, al seguito, lo stato maggiore e il governo, destinazione Pescara, in realtà Ortona, da dove si imbarcarono su una nave diretta oltre le linee nemiche, per consegnarsi nelle mani degli Alleati.

Il popolo niente sapeva di questa fuga vergognosa e nemmeno le varie divisioni di stanza nel Dodecanneso e in tutto lo stivale furono avvertite. Avvenne, così, che ognuno si trovò a decidere di testa propria che cosa fare se, cioè, reagire al tedesco oppure arrendersi e diventare prigioniero. Italiani dovete morire è il titolo del bellissimo libro di Alfio Caruso sulla tragedia della divisione Aqui a Cefalonia dove migliaia di italiani si opposero ai tedeschi e vennero per questo trucidati, per colpa soprattutto, di una classe dirigente che aveva ancora una volta preferito salvare se stessa che schierarsi a fianco di quel popolo che aveva contribuito a mandare al massacro.

L’ignavia, la vigliaccheria, la paura del re, dei suoi servitori e dei vertici militari produssero decine di migliaia di morti e deportati nei campi di concentramento in Germania. Gli italiani furono abbandonati nelle mani dell’ultimo padrone. Si preferì lasciarli in balìa dei tedeschi assetati di vendetta piuttosto che dare loro le armi e le direttive per reagire e conquistarsi a caro prezzo la libertà. Fu così che la pancia della gente venne trafitta dalla testa dei politicanti da strapazzo che erano al potere.

Oggi, 8 settembre 2019, assistiamo ad un altro colpo di stato strisciante, certamente meno cruento, ma altrettanto devastante per le aspirazioni di un popolo che vuole essere padrone di se stesso. Il presidente Mattarella, né più né meno di come si comportò il re, invece di affidare al popolo sovrano la scelta del governo da cui farsi guidare, ha preferito affidarsi a chi non aveva alcun diritto di essere dove sta e, soprattutto, ha scelto di far governare l’Italia da un binomio gradito allo straniero, alla grande finanza internazionale, alle elites mondialiste e agli organismi sovranazionali per i quali il denaro è l’unico dio da invocare complici i gesuiti del nuovo Imam e traditore della Chiesa cattolica, papa Bergoglio.

Anche in questa circostanza le aspirazioni della maggioranza del popolo italiano sono state represse a forza, senza se e senza ma. Non saranno gradite e, sicuramente, tollerate manifestazioni, lo hanno già detto Conte e i suoi servi sciocchi, compresi gli alleati falsi e farisei come (S)forza Italia, che possano in qualche modo mettere alle corde questo governo privo di legittimità popolare. Ed è, se non sbagliamo, il quinto governo che governa senza alcuna investitura popolare, segno che in Italia la democrazia non esiste più da un pezzo ed è stata soppiantata dalla dittatura dei poteri forti, dell’Unione Europea della Merkel e di Macron e di una Sinistra – Pd in primis – che non rappresenta più nessuno se non se stessa e i propri privilegi.

Mattarella come il re, Conte come Badoglio, i Pentastellati come lo stato maggiore: tutti lontani anni luce e traditori dell’unica entità che detiene la sovranità in uno stato di diritto: il popolo.

Fate schifo. Insegnate storia nelle scuole, altro che arabo e teoria Gender.

www.lagazzettadilucca.it

SOSTIENI IMOLAOGGI
il sito di informazione libera diretto da Armando Manocchia

IBAN: IT59R0538721000000003468037 BIC BPMOIT22XXX
Postepay 5333 1711 3273 2534
Codice Fiscale: MNCRND56A30F717K