La Ue deindustrializza l’Italia. Anche la disciplina sulle emissioni CO2 penalizza il nostro paese

di Alessandra Nucci – 18 sett 

Perché chiude l’Alcoa? Principalmente per i costi dell’energia. L’energia elettrica per le aziende produttrici di alluminio primario forma il 35-40 per cento del costo di produzione e in Italia l’energia elettrica viene a costare circa cinque volte quello che costa in Cina (120/MWh al confronto di 23/MWh). Il dato più sorprendente però è che il costo agli italiani – e non da ora – è molto più alto anche rispetto ad altri Paesi europei. In Germania, ad esempio, la MWh costa 85-90, quasi il 30 per cento in meno.

Per mettere la produzione di attività energivore in Italia, alle stesse condizioni di competitività dei paesi europei simili , il governo italiano era intervenuto a suo tempo accollandosi in parte i costi dell’energia. Nessun concorrente aveva avuto da ridire, ma nel 2009 ci ha pensato da sé la Commissione europea che ha giudicato l’integrazione ricevuta dall’Alcoa dalla Cassa conguagli italiana (per gli anni 2006 – 2009) come un aiuto sleale, e quindi condannando l’Alcoa a rimborsare la bellezza di 300 milioni di euro.

 

Ma la mazzata definitiva, informa il sito di Alcoa, consiste nei costi imposti dalla normativa UE a titolo di controllo del cambiamento climatico. Come spiegava in una lunga intervista con la European Energy Review del 7 giugno 2011, il portavoce per le politiche energetiche della Federazione Eurometalli, Robert Jan Jeekel: «Il Sistema di scambio delle emissioni [Emissions Trading System – ETS] per la «decarbonizzazione» delle industrie europee sta rendendo così costosa l’elettricità che non è più possibile continuarne la produzione». L’accusa di Jeekel all’Ue di causare la deindustrializzazione del continente riceve una conferma indiretta dai timori espressi recentemente dal Commissario UE all’energia Guenther Oettinger, il quale ha raccomandato che la spinta «verso un’economia a bassa C02 non perda di vista la necessità di mantenere la base industriale». Le mete europee 20-20-20 «dovrebbero includere – ha detto – anche un altro target: il 20 per cento di contributo industriale al Pil».

 

Ma, anche in questo campo, si registrano differenze macroscopiche che vedono l’Italia svantaggiata rispetto ad altri Paesi europei sui quali i costi per i diritti di emissione della CO2 gravano molto di meno, procapite, che sull’Italia.

 

Perché? Per via delle condizioni accettate da chi firmò il Protocollo di Kyoto nel 1997: non si stabilì un unico target uguale per tutti, ma si assegnarono «diritti di emissione» diversi da un Paese all’altro. Ai tedeschi, ad esempio, furono riconosciuti diritti pro-capite di 14,92 tonn./anno, contro i soli 8,7 tonn./anno pro-capite assegnati all’Italia (e la beffa è che nell’anno preso a riferimento, il 1990, eravamo più virtuosi degli altri). Per motivi diversi, anche la Francia si trova ad essere avvantaggiata, grazie al fatto di aver costruito tutte le centrali nucleari che ha voluto, presentandosi quindi con le carte in regola rispetto alla produzione di CO2.

 

Da notare che nel 2008 il ministro Stefania Prestigiacomo partì alla volta di Bruxelles, fermamente intenzionata a rinegoziare i diritti assegnati all’Italia, ma senza riuscirci. All’Italia «denuclearizzata», le politiche di Bruxelles non lasciano scampo: o perché ci si ferma al limite delle emissioni concesse, o perché non ce la si fa a pagare gli ulteriori permessi di emissioni sul borsino ETS , le attività industriali sono destinate inesorabilmente a ridursi, a partire da quelle più energivore, come la produzione di alluminio. In entrambi i casi, la deindustrializzazione è assicurata.

 

Il colmo è che le restrizioni europee hanno per effetto, ormai da anni, di spostare le attività fuori dall’Europa verso un’Asia che produce energia da carbone, che inquinante lo è per davvero, e non solo per la CO2 – il gas che tutte le industrie (nonché tutti gli esseri umani e animali che respirano) producono in quantità e che oltretutto favorisce la vegetazione. Il Regno Unito ha deciso recentemente di esonerare dal regime di scambio delle emissioni le piccole imprese e gli ospedali, a partire dal 2013, allo scopo di risollevare l’industria e con la prospettiva di risparmiare circa 80 milioni di sterline entro il 2020. Alcoa a parte, non potrebbe essere un modello anche per l’Italia?  (italiaoggi)

 

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