Barra Caracciolo: “Siamo un popolo autorazzista. Perciò siamo schiavi dell’UE”

Intervista del Sottosegretario Luciano Barra Caracciolo alla Verità – di Daniele Capezzone)

Luciano Barra Caracciolo, giurista, magistrato, presidente di sezione del Consiglio di Stato, è sottosegretario agli Affari europei, e lavora fianco a fianco con il ministro Paolo Savona. Tra i suoi saggi, Euro e (o?) democrazia costituzionale e La Costituzione nella palude.

Costituzione e norme Ue. Perché l’Italia ha accettato di piegarsi oltre ogni ragionevolezza?

“È un problema culturale di difficile soluzione. In termini di filtro tecnico-giuridico, la Corte costituzionale, all’inizio degli anni Settanta, ha ritenuto che fosse improbabile un impatto negativo delle norme europee sui rapporti politici e sociali, separandoli meccanicamente dai rapporti economici (cioè iniziando a ritenere l’autonomia tecnica della sfora economica da quella politica). Non si percepì quanto potesse essere ragguardevole la trasformazione che sarebbe stata indotta nella società italiana, incidendo anche su occupazione, tutela del lavoro, salari…”.

Errore di sottovalutazione.

“Forse. E da allora non si è più rivista quell’impostazione. Si è dato per scontato che i trattati europei, anche se via via ampliavano la loro incidenza sul governo delle società nazionali, fossero compatibili con l’articolo 11 della Costituzione. Anzi, da un lato si era persuasi che non ci sarebbe stata alcuna modifica dei principi fondamentalissimi della nostra Costituzione, e dall’altro che sarebbero scattati i controlimiti, e cioè un’interdizione agli interventi esterni che avessero eventualmente compresso i principi che non sono modificabili neppure con il procedimento di revisione costituzionale. Ma poi non sono mai stati in concreto applicati alle regole europee; almeno finora…”.

Quale complesso d’inferiorità ha indotto una classe dirigente a dire sempre si?

“Tra le tante testimonianze, vanno rilette le memorie di Guido Carli, figura centrale nel coniare la formula del vincolo esterno. Il suo ragionamento fu, grosso modo: si, mi rendo conto che il vincolo esterno sottrae potere alle istituzioni democratiche definite nella Costituzione, ma non possiamo lasciare la società italiana in preda ai suoi istinti…”.

Addirittura…

Si, la convinzione radicata nelle nostre classi dirigenti era: gli italiani non sono in grado di capire cosa sia giusto per loro“.

L’interesse nazionale è stato regolarmente dimenticato.

“Questo non è del tutto vero. Se uno va a vedere i lavori della Costituente, c’è una centralità dell’interesse nazionale, una coscienza forte del patriottismo. E per un certo periodo questo si è verificalo: dalla ricostruzione al boom economico”.

Più tardi però è scattata la corsa a essere i primi ad approvare quella certa norma perché “ce lo chiede l’Europa”…

“Questo zelo deriva anche dal fatto che, negli anni Cinquanta e Sessanta, il successo italiano aveva messo in discussione certe gerarchie. Un trauma inaccettabile per alcuni. Ecco allora la necessita della cosiddetta “disciplina europea”. Del resto,se si considera la visione di Carli che abbiamo citato, tutto il resto diventa una conseguenza naturale. Si arriva alla conclusione di Tommaso Padoa Schioppa, che più o meno sosteneva che gli italiani dovessero essere rimessi in contatto con la durezza del vivere, come se non l’avessero ben conosciuta…”.

Un pregiudizio autolesionista. 

“Diciamola tutta: una concezione autorazzista che ha influenzato chiunque volesse governare. Come dire: gli italiani l’hanno fatta franca, hanno ottenuto troppo… Ora bisogna riaggiustare le cose”.

Oggi i cittadini chiedono “meno Europa”. È immaginabile un percorso che faccia prevalere il rispetto delle diversità nazionali su un’innaturale omogeneità?

“Difficile fare previsioni. Faccio una notazione retrospettiva. L’idea delle differenze nazionali da superare non è mai stata condivisa – per loro, ovviamente – dai tedeschi, che hanno sempre difeso, con pronunce sistematiche della loro Corte costituzionale, l’incomprimibilità delle previsioni della loro Carta. Il loro ragionamento è stato: i nostri principi costituzionali non possono essere ridiscussi da una mera associazione di Stati sovrani (l’Ue), altrimenti servirebbe un nuovo processo costituente qui in Germania. Quindi, un’Europa concepita come un luogo dove si compongono gli interessi nazionali, ma non si confondono. I tedeschi hanno giocato su questo: stabilendo rapporti di forza per favorire il loro modello economico. E in qualche misura ciò è stato consentito, per ragioni di equilibrio politico, anche ai francesi”.

Sarebbe immaginabile per noi quella che in Uk, prima di Brexit, era stata chiamata «sovereignty bill», un meccanismo per consentire al Parlamento di rimandare indietro ciò che arriva da Bruxelles?

“Teoricamente questo dovrebbe essere già implicito due volte. Una prima volta, per i paletti dell’articolo 11 della Costituzione, che consente mere limitazioni di sovranità ma “in condizioni di parità con gli altri Stati” e purché volte a assicurare pace e giustizia tra le nazioni: insomma, mica dice che il deficit di alcuni è ammissibile e il nostro no… E una seconda volta per lo stesso Trattato Ue, che (articolo 4, paragrafo 2) precisa che “l’Unione rispetta l’identità nazionale insita nella struttura politica e costituzionale degli Stati aderenti”. Ma è risultato un enunciato enfatico, destinato a esser disapplicato: e ora il paradosso è che se qualcuno cita quel passaggio, viene accusalo di antieuropeismo…”.

Qualcosa non ha funzionato.

«Certo. L’articolo 4 citato è contraddetto da altre norme dello stesso Trallato, e dalle progressive applicazioni della Corte europea, che tende a procedere con motivazioni apodittiche. Applica le nonne europee come se non fossero nemmeno diritto internazionale, e ritiene in assunto che non ci possa mai essere conflitto con le costituzioni dei singoli Stati…”.

Cosa servirebbe come “scudo” efficace?

“Per prima cosa, dovremmo smettere di avere un atteggiamento rassegnato e timorosamente conformista, una sorta di ansia di non essere accettati che ci ha reso, non paradossalmente, “tollerati”. In Italia tendiamo a ritenere che la logica del fatto compiuto altrui ci metta in condizione di inferiorità. Quando invece, facendoci forti dell’articolo 11 della Costituzione, potremmo sempre invocare parità di condizioni e rispondenza dell’applicazione dei trattati alla nostra identità racchiusa nella Costituzione lavoristica, puntare sulla simmetria, fare come gli altri. Nulla esclude che l’Italia possa svolgere una verifica sistematica di ciò che arriva da Bruxelles: non per creare conflitti, ma per svolgere un doveroso monitoraggio attento alla struttura fondamentale della nostra democrazia”.

Si può dire che, dopo l’intervento Ue, l’ultima legge di bilancio sia peggiorata? Più tasse, più clausole, meno investimenti.

“Per mesi a Bruxelles hanno dichiarato un allarme senza precedenti, sostenendo che l’Italia metteva in pericolo la sopravvivenza dell’euro. Ovviamente era un presupposto contestabilissimo. E le contraddizioni sono evidenti: con la Francia che sfora rispetto ai parametri per la decima volta in undici anni, eppure non le viene detto altrettanto”.

Ma non vedono che c’è un rischio recessione in tutta l’Ue?

“Ci sono avvisaglie abbastanza inquietanti, amplificate dalla rigidità del modello fondato sulle esportazioni imposto dall’adeguamento all’impostazione tedesca. I dati Istat del terzo trimestre 2018 indicano una riduzione degli investimenti, consumi stagnanti e che tendono al negativo, mentre l’unica cosa che regge (ma con meno forza di prima) sono le esportazioni. Ma tutta questa visione export led produce una forte vulnerabilità agli shock esterni. Se arriva uno shock, se si rompe per qualche ragione la forte connessione tra le economie, sono problemi enormi”.

Che strategia ha l’Italia rispetto al prossimo bilancio Ue?

“Domanda sdrucciolevole, perché la trattativa coinvolge una pluralità di soggetti istituzionali e di governo”.

È astrattamente immaginabile un nostro veto? 

“Dirò una cosa oggettiva: come dato, non come opinione o proposta. Davanti a un bilancio che,per decenni, ha costantemente enunciato titoli e obiettivi altisonanti, ma non realizzati, porre un veto – rammentando che siamo uno
dei principali contribuenti netti – diventa un modo serio (e legale, cioè conforme a e non violativo dei trattati) per ridiscutere l’assetto europeo, per far emergere il non detto, per capire dove si vuole andare nel plasmare la convivenza sociale e il benessere effettivo pelle popolazioni coinvolte: e quindi cercare di capire come porre rimedio a un malcontento – si pensi a Parigi – che non è solo italiano”.

Perché l’Ue rifiuta di discutere il piano Savona?

“Nelle sedi ufficiali europee, ciò che si percepisce è una compattezza priva di dubbi nel sostenere che tutto va bene, che non ci sono approcci diversi possibili o auspicabili”.

Le politiche Ue non sono state abbastanza efficaci e coerenti con gli scopi dichiarati?

“Ce ne vogliono di più, si deve insistere negli stessi percorsi. Un’autosufficienza acritica, una percezione di sé stessi come infallibili. Speriamo che da giugno le cose possano progressivamente cambiare”.

di Daniele Capezzone

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