Il silenzio che uccide: la Chiesa di fronte al suicidio assistito e la vera battaglia per la vita

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Il confine sottile tra sofferenza e libertà: Il caso di Laura Santi e la sfida all’Umanità

di Paola Persichetti – L’Italia, e in particolare l’Umbria, è stata recentemente teatro di un evento che riaccende il dibattito sul fine vita: la morte di Laura Santi, giornalista perugina di cinquant’anni, affetta da una grave e progressiva sclerosi multipla. Il 21 luglio 2025, Laura ha scelto di autosomministrarsi un farmaco letale nella sua abitazione di Perugia, assistita dal marito Stefano e da personale sanitario volontario fornito, in parte, dall’Associazione Luca Coscioni, di cui era attivista e consigliera.

Il suo caso rappresenta il nono in Italia e il primo in Umbria di suicidio medicalmente assistito, reso possibile dalla sentenza della Corte costituzionale del 2019 sul caso DJ Fabo e dalla successiva sentenza del 2024 sull’interpretazione del “trattamento di sostegno vitale”.

Laura Santi ha intrapreso un lungo e sofferto percorso legale durato quasi tre anni, con denunce, diffide, ricorsi d’urgenza e reclami contro l’ASL Umbria 1, che inizialmente aveva negato il riconoscimento dei requisiti. Solamente nel novembre 2024 ha ottenuto la relazione medica completa che attestava il possesso delle condizioni necessarie, e a giugno 2025 la conferma del protocollo farmacologico e delle modalità di assunzione, avvenuta con il Tiopentone sodico per via endovenosa, assistita da un anestesista e un infermiere dell’Associazione Coscioni APS. Tra le figure coinvolte ci sono sanitari dipendenti del servizio sanitario nazionale addetti alle cure palliative. Anche il Comitato Etico Regionale, pur avendo all’interno figure come la professoressa Assunta Morresi dichiaratamente praticante cattolica, ha dato il suo parere favorevole.

Il suicidio sssistito: na porta aperta all’eutanasia e una falsa libertà

La vicenda di Laura Santi, pur nella sua drammaticità, è stata presentata da alcuni media con toni trionfalistici, esaltando una presunta “libertà” acquisita. In Umbria, come in altre regioni, è in corso una raccolta firme per una proposta di legge regionale sul suicidio assistito, la cosiddetta “Liberi subito”, che ambisce a replicare quanto già accaduto in Toscana. Questa iniziativa, promossa dall’Associazione Luca Coscioni, si pone come apripista per una legalizzazione più ampia dell’eutanasia, una pratica che, sebbene mascherata da “diritto”, nasconde un profondo tradimento dell’uomo e della sua dignità.

La sofferenza, come ben sappiamo, può condurre a una disperazione tale da far desiderare la morte. Molti di noi hanno vissuto momenti di angoscia insopportabile, in cui la vita sembrava perdere ogni senso. Ma è proprio in quei frangenti che la vera libertà non consiste nel cercare una via d’uscita definitiva, bensì nel trovare l’accoglienza, l’ascolto, l’accompagnamento.

La storia di DJ Fabo, che nella sua ultima lettera parlava di “sofferenza e disperazione”, solleva un interrogativo cruciale: desiderava davvero morire o, piuttosto, aveva bisogno di ritrovare il senso della vita?
L’idea che il suicidio assistito sia un atto di libertà è una pericolosa mistificazione. È un abbandono travestito da diritto, una risposta disumana e vile al grido estremo di chi si sente solo e inutile. Non è libertà scegliere di porre fine alla propria vita quando si è dominati dalla disperazione; è l’esito di una mente non lucida, non realmente libera. La vera risposta alla disperazione è la cura, alla solitudine la presenza, alla paura l’amore.

L’importanza dell’ascolto e la vera libertà nella Fede

La narrazione mediatica del caso Laura Santi ha messo in luce anche un altro aspetto critico: la strumentalizzazione della figura dell’Arcivescovo di Perugia, Monsignor Ivan Maffeis. La stampa ha enfatizzato il suo approccio “libero, umile e profondo”, che lo avrebbe portato ad “ascoltare” Laura Santi senza “cercare di convincerla o dissuaderla”. Questa interpretazione, sebbene apparentemente encomiabile, rischia di distorcere profondamente il ruolo e il mandato della Chiesa e il vero significato dell’ascolto nella fede.

Gesù, nel Vangelo, non dice “andate e ascoltate”, ma “andate e ammaestrate tutte le genti”. La fede, come ci insegna San Paolo, “viene dall’ascolto” (Romani 10,17). E chi ascolta gli apostoli, ascolta Cristo stesso: “Chi ascolta voi ascolta me”. La rivelazione biblica è intrinsecamente Parola di Dio all’uomo. Mentre le filosofie orientali e i misteri greci ponevano l’accento sulla visione, la Bibbia fonda la fede sull’udito. L’uomo deve ascoltare Dio, e questa è la volontà di Dio per Israele: “Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo” (Deuteronomio 6,4 – Shema Yisrael Adonai Eloheinu Adonai Echad).

Il senso ebraico di “ascoltare” non è un mero udire passivo, ma un accogliere la parola di Dio fino al cuore, che si traduce in messa in pratica, in obbedienza. Questa è l’obbedienza della fede, richiesta dalla predicazione ascoltata. Il dramma dell’uomo risiede proprio nella sua sordità agli appelli di Dio, nel suo orecchio e cuore “incirconcisi”. Gesù stesso denunciava: “Voi non potete ascoltare la mia parola. Chi è da Dio ascolta le parole di Dio. Se voi non ascoltate è perché non siete da Dio” (Giovanni 8,43). Solo Dio può aprire l’orecchio del suo discepolo affinché obbedisca, e i miracoli di Gesù sui sordi significano che il popolo comprenderà finalmente la Parola di Dio e le obbedirà. La voce dal cielo proclama: “Questo è il mio Figlio diletto; ascoltatelo!”. E Maria, beata perché “ascolta la parola di Dio e la custodisce” (Luca 11,28), è l’esempio per eccellenza.

La vicenda di Giacobbe ed Esaù offre un’illuminante riflessione sulla preminenza dell’udito. Isacco, ingannato dal tatto, si fida più della pelliccia che della voce di Giacobbe, che lo aveva tradito. Se avesse dato retta all’udito, avrebbe smascherato l’inganno. Questo ci ricorda che l’udito, nel suo senso spirituale, è la via privilegiata per discernere la verità.

La vera libertà, quindi, lungi dall’essere la capacità di decidere arbitrariamente, è una libera adesione al disegno di Dio. Non è costrizione, ma un’obbedienza che permette all’uomo di fare della propria vita un servizio a Dio e di entrare nella sua gioia. L’obbedienza è il segno e il frutto della fede. Adamo disobbedì perché dimenticò la parola di Dio e ascoltò il tentatore. Per salvarci, Dio ha suscitato la fede di Abramo, mettendola alla prova attraverso l’obbedienza: “lascia la tua terra”, “cammina alla mia presenza e sii perfetto”, “prendi tuo figlio, offrilo in olocausto”. L’obbedienza di Gesù Cristo è la nostra salvezza e ci permette di ritrovare l’obbedienza a Dio.

I Cattolici ai tempi del suicidio assistito: una Chiesa smarrita o profetica?

Assistiamo oggi a un preoccupante fenomeno di semina della confusione e del dubbio sulla Dottrina della Chiesa, uno “sport” che rende molti cattolici incerti, smarriti e preda di ideologie nefaste. La gravità della situazione è acuita dal fatto che tale debolezza culturale sembra attaccare anche alti esponenti della Chiesa, e che persino testate cattoliche si prodighino per la proposta e approvazione di un disegno di legge sul suicidio assistito.

Eppure, la dottrina della Chiesa Cattolica è inequivocabile. La vita umana è sacra e inviolabile, dal concepimento fino alla morte naturale. La Chiesa si oppone fermamente ad aborto, eutanasia e suicidio assistito, considerati atti intrinsecamente cattivi. Questa posizione è radicata in documenti magisteriali fondamentali come l’enciclica Humanae Vitae (1968) di San Paolo VI, Evangelium Vitae (1995) di San Giovanni Paolo II e il Catechismo della Chiesa Cattolica. L’eutanasia è un “atto intrinsecamente cattivo” (CCC, n. 2277; Evangelium Vitae, n. 65), distinta dalla moralmente accettabile sospensione di trattamenti sproporzionati (accanimento terapeutico).

La dottrina cattolica invita i fedeli a vivere coerentemente la propria fede in ogni ambito, inclusa la partecipazione politica. I cattolici hanno il dovere di promuovere il bene comune e difendere la vita umana, opponendosi a leggi che favoriscano aborto o eutanasia. La Nota dottrinale circa alcune questioni riguardanti l’impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica (2002) della Congregazione per la Dottrina della Fede (Prefetto Card. Ratzinger) sottolinea che è un dovere morale non sostenere o non votare per proposte che promuovano la “cultura della morte”, specialmente per chi ricopre ruoli pubblici. Partecipare a una votazione che promuova direttamente tale cultura contraddice una coscienza ben formata, conforme agli insegnamenti della Chiesa.

San Giovanni Paolo II in Evangelium Vitae (n. 73-74) è chiaro: “Nel caso quindi di una legge intrinsecamente ingiusta, come è quella che ammette l’aborto o l’eutanasia, non è mai lecito conformarsi ad essa, né partecipare ad una campagna di opinione in favore di una legge siffatta, né dare ad essa il suffragio del proprio voto.”
La Dichiarazione Samaritanus Bonus (2020) ribadisce che “Tali pratiche non sono mai un autentico aiuto al malato, ma un aiuto a morire”, e Paolo VI in Humanae Vitae (paragrafo 14) afferma: “Non è lecito, neppure per ragioni gravissime, fare il male affinché ne venga il bene”.

Come è possibile, dunque, che cattolici, politici e no, si facciano promotori di una legge sul fine vita, persino appoggiati da alcuni esponenti del clero? L’argomento addotto è che la sentenza n. 242/2019 della Corte costituzionale ha depenalizzato l’aiuto al suicidio assistito in alcune circostanze, sollecitando il legislatore a porvi rimedio. Si propone quindi una legge “meno permissiva” per scongiurare una “più permissiva”. Ma una tale logica è inaccettabile: stiamo comunque parlando di leggi che permettono un male morale. Entrambe sono malvagie, anche se in misura diversa. Una tale azione è in netto contrasto con la Dottrina della Chiesa, ricadendo nella massima “Il fine giustifica i mezzi”, vietata dal Catechismo (n. 1753). Diverso sarebbe se si proponesse una rettifica lecita e moralmente giusta a una legge iniqua già esistente, per ridurne gli effetti letali.

L’ironia e le palesi contraddizioni abbondano. Si legge di ex parlamentari cattolici, vicepresidenti di movimenti per la vita, che si fanno promotori attivi di un disegno di legge sul suicidio assistito, un’incoerenza che ricorda il paradosso del “comunista che la rivoluzione oggi no, domani forse, ma dopodomani sicuramente”. Allo stesso modo, si assiste a figure ecclesiastiche, pur chiamate a tutelare la vita, che enfatizzano la “necessità del dialogo” e della “mediazione”, definendo il suicidio assistito una “sconfitta per tutti”, senza però esprimere una chiara ed esplicita condanna del principio alla base del disegno di legge. Addirittura, si afferma che il suicidio assistito “limita maggiormente gli abusi” rispetto all’eutanasia. Un dialogo è necessario, certo, ma non a scapito dei principi etici fondamentali, e non fine a sé stesso.

In questo contesto, la figura dell’Arcivescovo di Perugia, Monsignor Ivan Maffeis, assume un rilievo particolare. Laura Santi stessa, nella sua lettera di addio, menziona il suo incontro con il presule avvenuto nell’agosto dell’anno precedente. Laura, atea e sbattezzata, descrive un religioso che non è andato a trovarla per “farle cambiare idea”, ma per “ascoltarla”. Le sue parole, riportate da Laura, sono state:

Chi sta fuori da queste sofferenze deve inchinarsi a voi. Noi non dobbiamo mettere bocca su cosa fate, come vivete, come non vivete. Io non posso stare dentro i vostri vestiti o dentro le vostre scarpe. Io non posso nemmeno immaginare quello che prova lei.” Laura ha percepito in lui un “uomo libero, molto umile e profondo”, che “non ha cercato di convincermi e di dissuadermi dal fare questa cosa“.

Se queste parole fossero state pronunciate così, ci troviamo di fronte a una criticità gravissima che interpella il cuore della missione della Chiesa. La Chiesa non è chiamata a tacere, ma ad aprire le porte del Paradiso, a portare tutti alla vita eterna. Come può un uomo di Dio affermare di “non mettere bocca su cosa fate, come vivete o come non vivete”? Se la Chiesa, sale, luce e lievito del mondo, non indica la via, chi lo farà? Il silenzio e l’ascolto non possono e non devono tradursi in una rinuncia al proprio mandato di educare, ammaestrare e comunicare la verità di Cristo, specialmente in momenti di estrema sofferenza e disorientamento.

La successiva dichiarazione dell’Arcivescovo, “Questo è il giorno del silenzio abitato dal dolore per lo spreco che la morte porta con sé e dalla riconoscenza per il tratto di strada condiviso”, pur nella sua delicatezza e apparente pietas, non scioglie il nodo di questa perplessità. La “delicatezza” del presule, evidenziata anche dal giornalista, rischia di essere interpretata, come Laura Santi stessa ha fatto, come una libertà dal “pensiero bigotto, retrogrado e oscurantista” della Chiesa sul suicidio assistito. In una regione come l’Umbria, dove una donna lotta per la “libertà di morire” e una figura ecclesiastica rappresentante la Chiesa Umbra e universale sembra non proferire parola sulla direzione da prendere, si delinea uno scenario inquietante.

Non si può tacere nemmeno l’apparente via libera da parte di alte figure vaticane, come il Cardinale Parolin, a “legiferare salvaguardando la dignità umana”, un’espressione che in questo contesto suona ambigua, specialmente se si considera l’accordo, ancora segreto, con il regime di Pechino, che ha “scaricato” i cattolici cinesi fedeli al Papa.

E che dire delle riviste cattoliche che aprono con racconti strappalacrime di donne che hanno scelto il suicidio assistito, richiamando la strategia dei radicali che usano casi limite e drammatici per trasformarli in “bisogni di massa”? Il titolo “Perché sono favorevole a una legge sul suicidio assistito” su una testata cattolica è eloquente. È curioso, inoltre, che molti di questi “cattolici” siano gli stessi che, durante la pseudo-pandemia COVID, si battevano per il “green pass”, uno strumento degno di un regime comunista, creato per soffocare la libertà personale e costringere all’inoculazione di massa con un prodotto sperimentale.

Questi cattolici sembrano dimenticare le parole di Papa Leone XIV, che il 13 luglio 2025, nell’omelia a Castel Gandolfo, ha sollecitato a “servire la vita”: “Vedere senza passare oltre, fermare le nostre corse indaffarate, lasciare che la vita dell’altro, chiunque egli sia, con i suoi bisogni e le sofferenze, mi spezzi il cuore.” E nell’Angelus dello stesso giorno ha ribadito: “Per vivere in eterno non occorre ingannare la morte, ma servire la vita, cioè prendersi cura dell’esistenza degli altri nel tempo che condividiamo. Questa è la legge suprema, che viene prima di ogni regola sociale e le dà senso.”

Prendere cura degli altri, dunque, non equivale a farsi promotori di servizi di morte.
Gesù non ci ha invitato a fornire agli altri servizi di morte, non ci ha detto di proporre una verità confessionale ridotta, una “verità parrocchiale” per l’uomo d’oggi “piccolo, fluido e senza identità”. Non ci ha neanche detto di proclamare un cristianesimo ridotto o un’opinione tra le tante. Egli ci ha sollecitati ad essere “il sale della terra” (Matteo 5,13) e “la luce del mondo” (Matteo 5,14-16), a far risplendere la nostra luce affinché gli uomini vedano le nostre opere buone e rendano gloria al Padre. Ci ha detto di proclamare la verità tutta intera, quella grande verità che rende la società più umana e l’uomo grande e vero, nonostante la sua pochezza. Anche a costo di essere una sparuta ma fedele minoranza.

Spiace che, almeno una parte di questi cattolici, abbiano dimenticato la risposta dello staretz Giovanni nel Racconto dell’Anticristo di Vladimir Solov’ëv: “Grande sovrano! Quello che abbiamo di più caro nel cristianesimo è Cristo stesso! Lui stesso e tutto ciò che viene da Lui, giacché noi sappiamo che in Lui dimora corporalmente tutta la pienezza della Divinità!”

Paola Persichetti

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